L’Orfeo Sassone
Georg Friedrich Händel (Halle, 1685 – Londra, 1759) |
Dal secolo scorso abbiamo ereditato un curioso pregiudizio estetico. Amiamo e apprezziamo le opere d’arte del passato a condizione che rigettino la convenzione del tempo loro, che attestino una deliberata volontà di progresso formale. Di questo pregiudizio ci creiamo una discriminante. Essa non opera di fronte a opere d’arte dell’età romantica: dove il rifiuto della convenzione è quasi sempre un a priori. Ma la discriminante diviene, in musica, fatale, quando ci portiamo in epoche preromantiche.
Nella musica del Settecento, l’anticonvenzionale e il valore coincidono in modo nient’affatto necessario. Ne consegue che molti storici della musica hanno escogitato acrobazie critico-estetiche d’ammirevolissima capziosità pur di trovare rivoluzionari capolavori che sono, in realtà, convenzionalissimi: ma ch’essi, sentendo imperiosamente capolavori, desiderano munire dell’unico salvacondotto possibile per l’ammissione in Parnaso. Alcuni storici della musica, meno pieghevoli dalle lusinghe sensuali della bellezza, dal Parnaso ricacciano tutto quel che non sia programmatica affermazione di progresso. La discriminazione, saltato a più pari l’Ottocento, torna imperiosamente in onore in molte trattazioni storiche della musica del nostro secolo.
Ingiustizia tra le più palesi della storia della musica del Settecento tocca Händel. Egli visse in un secolo che sfornò, letteralmente, oceani di musica, la buona part della quale d’alta qualità. Eppure, quando si parla di Händel, in tutto quel secolo musicalmente miracoloso è possibile considerare suoi pari solamente tre maestri: Bach, Haydn e Mozart. Trattare di questo musicista dovrebbe implicare un religioso rispetto in chi l’accosta; e ogni briciola della sua tavola musicale essere considerata come in antico erano conservate le reliquie del transito terreno del dio.
La copiosità della produzione di Händel dovrebbe essere vista come un ulteriore miracolo, non produrre in noi l’obbligo d’ergercene a selezionatori. Troppi storici della musica, insensibili alla pagina musicale, assolvono o condannano a seconda dell’aderenza che essa manifesta a propri schemi storici o estetici. Eccone il desolante risultato: Händel autore d’Oratori è in cima alle valutazioni generali; Händel autore di melodrammi è, di solito, tranquillamente abbandonato ai vortici di polvere del passato, dell’irrecuperabile.
Codesta selezione non fa che trasporre sul terreno del giudizio la discriminazione preventiva che dicevamo. Infatti: creando i suoi grandi Oratori inglesi, Händel creò un genere musicale totalmente nuovo; postulò un nuovo accostamento del pubblico alla musica; statuì, a sua volta, convenzioni di scrittura e di comportamento che avrebbero retto, all’incirca, duecent’anni. Indubbiamente, si tratta del Händel più personale. Forse, si tratta del Händel più grande; ma di pochissimo più grande di quell’altro, affidatosi a consuetudini d’ascolto completamente estinte con lui: il creatore di melodrammi.
Quello, l’autore di «opere serie», a operare entro una vera e propria koiné linguistica si trovava perfettamente a suo agio; e riusciva, fatto mirabile, a esprimere un intero universo senza necessità d’adoperare nemmeno un arnese estraneo alla convenzione: estraneo a quel patrimonio comune donde tutti erano liberi di attingere a piacimento. Solo ora si comincia a far strada l’idea che buona parte dei melodrammi del convenzionalissimo Händel non sia inferiore a quelli dell’unico autore premozartiano «serio» ammesso talvolta nel repertorio, Gluck; e Gluck, a sua volta, è apprezzato dagli storici più per le sue qualità di riformatore che per i personali meriti di musicista.
Il cammino verso la comprensione del melodramma di Händel è lungo e difficile. Intrapreso da tempo relativamente breve, specie per merito di alcuni libri di scuola musicologica anglosassone (l’ultimo è quello di Winton Dean, Handel and the Opera Seria, Berkeley, 1969), deve passare per la tappa obbligata delle esecuzione dal vivo, che sono la dimostrazione ma anche il fine delle tesi della critica. E il punto dolente è proprio qui: d’esecuzioni ne sono avvenute poche, e di queste poche troppe eran letti di Procuste, che tentavano di trasformare Händel in Gluck se non in Wagner. La Germania, patria anagrafica del compositore, ha dato in questo pessimi esempi; un po’ meglio si è regolata l’Inghilterra, sua patria d’elezione; mentre, l’altra sua patria d’elezione, l’Italia, non s’è regolata affatto, preferendo ignorare il problema.
V’è una curiosa sproporzione fra i melodrammi di Händel: sono tutti opere serie italiane ma, su trentotto, trentacinque furono scritti in Inghilterra, fra il 1713 e il 1741. L’interesse era perciò raddoppiato di fronte alla possibilità d’ascoltare una delle rarissime esecuzioni nel nostro tempo d’Agrippina, il solo melodramma superstite del giovanile viaggio in Italia del compositore, e di questo viaggio vera e propria summa. Un’opera che già alla prima lettura si rivela un capolavoro. Scritta a Napoli nel 1708 (dunque, a ventitré anni), e rappresentata l’anno dopo con inaudito successo nella capitale musicale d’Italia, Venezia, Agrippina è il segno tangibile della conclusione dei Lehrjahre, degli anni d’apprendistato del suo autore. Nell’esser questo, è inconsapevolmente l’estratto possente e l’apoteosi degli ultimi quarant’anni di musica barocca italiana. Splendido come un Ercole, fatto naturalmente segno d’onori che alcun musicista avrebbe mai sognato di poter ricevere, il giovane sassone sembrava destinato ad assorbire fino all’ultimo e poi fondere in sé tutto quanto, in tutti, si trovava sparso; e farlo brillare di luce più forte.
Egli scrisse con lattea ubertà. Il contrappunto, così fluido, fine e insieme corposo, per la coincidenza d’una densa materia armonica, di Corelli, così perfetto e composto da sembrar di marmo: ma d’un marmo venato di pathos; e l’astrale precisione che questi impiega nell’«orchestrare» con gli archi; il giuoco di masse e pesi sonori, che ancora Corelli aveva insuperabilmente reso stile nel Concerto Grosso; la nuova forma di Alessandro Scarlatti, la sua robusta e insieme intellettualistica drammaticità, la sua maestria nel trattare le voci, la ricercatezza e la sensualità quasi lascive della sua armonia, e persino il suo sperimentalismo; l’austera concezione modale di Legrenzi; l’intensità patetica di Caldara; la stravaganza di Pasquini; la brillantezza di Bononcini; la lunga, vaga melodia vocale di Porpora; la perentorietà tonale e ritmica di Vivaldi: tutto quanto, in questi grandi musicisti, è il frutto di anni, di ricerche personali, di personali e faticose conquiste o anche d’innato genio, risuona nell’Agrippina con immediata felicità, come sortisse senza sforzo da una sorgente d’insondabile ricchezza, e come se, nella fusione, acquisisse una inedita potenza. Come se Händel fosse (ed è) il meta-musicista barocco italiano. Dopo Agrippina, Händel partì alla conquista d’Europa. Lo accompagnava il titolo di Orpheus aetatis.
(1975)
(testo tratto da: Paolo Isotta, I sentieri della musica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978, pp. 87-90)
Adriana Benignetti