Domenica 11 gennaio, il
primo appuntamento 2015 del ciclo “Prove Aperte” ha visto Luisi in splendida forma nelle pagine di Ligeti e
Varèse: meno brillante, invece, l’esecuzione del concerto di Brahms, con
solista Joshua Bell
È
un Teatro alla Scala “sold out” quello che accoglie il primo appuntamento del
2015 del ciclo “Prove Aperte – La Filarmonica della
Scala incontra la città”, lodevole e ormai consolidato progetto che vede
La Filarmonica impegnata, da un lato, a sostenere il mondo del non profit
milanese e, dall’altro, a garantire una maggiore accessibilità alla musica a
prezzi davvero contenuti.
Primo
appuntamento che viene introdotto dal critico musicale Enrico Parola, sul palco
a dialogare con Fabio Luisi. Il direttore confessa di non amare molto le parole
(“Preferisco dirigere 5 ore piuttosto che parlare 10 minuti”): eppure, riesce a
tenere il pubblico attento e silenzioso presentando in maniera chiara, comprensibile
e appassionante i brani che verranno eseguiti.
Inizia,
poi, la prova che rilegge il programma a ritroso rispetto a quanto stabilito
per il concerto (che avrà luogo il giorno successivo): Varèse, Ligeti, Brahms. Ad
aprire è dunque Amériques, brano “per
grande orchestra” di Edgard Varèse: e di grande orchestra davvero trattasi,
visto che l’organico impiegato è enorme, particolarmente nelle sezioni delle
percussioni (ben 11 gli esecutori). Bella e di grande maestria è la lettura che
Luisi ne dà: una lettura che mette in rilievo, innanzitutto, le
contrapposizioni sonore e ritmiche della partitura (tra tempi lenti e molto
vivaci e tra ottoni e archi, con i legni a fare da trait d’union tra tutte le sezioni). Una partitura complessa,
quella di Varèse, eppure caratterizzata dall’immediatezza dell’approccio. Il
brano viene eseguito da cima a fondo e solamente poche battute sono, alla fine,
ripetute.
Si
passa, poi, a Lontano di György
Ligeti, pagina molto suggestiva e segnata da una sorta di “ragnatela armonica”
dalla quale si diramano, come fili, le melodie, con chiari riferimenti a Bach
e Ockeghem. Anche in questo caso ottima la direzione di Luisi e l’esecuzione
della Filarmonica.
Tutto
cambia, invece, nella seconda parte della prova, quando a salire sul palco è
Joshua Bell cui è affidata l’esecuzione del Concerto
per violino e orchestra in re magg. op. 77 di Brahms: fisico atletico e un
pizzico di spavalderia, tecnica impeccabile, suono meraviglioso, Bell accentra su
di sé tutte le attenzioni. L’esecuzione è interrotta, fin da subito,
ripetutamente: a chiedere di rivedere passaggi o singole battute è di rado
Luisi, molto più spesso il violinista. E quando lo fa, la tendenza è quella di
salire sul podio – per indicare con precisione le battute, certo, ma anche per
dare la sua lettura della partitura (o almeno questa è l’impressione che si
ricava) – o di suonare le parti orchestrali, rivolgendosi in particolare alla
sezione dei primi violini e mostrando loro dinamiche e accenti voluti.
Il
risultato finale è, per certi versi, straniante: Joshua Bell, nonostante la
tecnica impeccabile, la presenza scenica invidiabile, il suono intenso e il
grande virtuosismo, fa, della splendida pagina brahmsiana, una lettura poco
coinvolgente e appassionante, privilegiandone il lato virtuosistico.
Quel che risalta, più di tutto, però, è la davvero poca coesione tra le parti, la mancanza di una visione comune, di un equilibrio tra solista e orchestra che, invece, il concerto richiede. E lo stesso Luisi, che nella prima parte aveva brillato, è sembrato qui nervoso e poco concentrato.
Quel che risalta, più di tutto, però, è la davvero poca coesione tra le parti, la mancanza di una visione comune, di un equilibrio tra solista e orchestra che, invece, il concerto richiede. E lo stesso Luisi, che nella prima parte aveva brillato, è sembrato qui nervoso e poco concentrato.
Adriana Benignetti