«Ho
iniziato a godere appieno della musica quando ho cominciato a suonare con gli
altri, a condividere l’esperienza emotiva e intellettuale della costruzione di
un’interpretazione»
(Foto di Fulvia Farassino) |
Pochi
mesi fa sei stato nominato “Accademico” di Santa Cecilia. Che significato ha
per te quest’investitura?
È un grande onore far parte di un
gruppo di illustri musicisti italiani: sfogliare l’elenco mi fa venire i
brividi. Lo vivo come un riconoscimento del lavoro svolto finora ma, soprattutto,
come uno stimolo a migliorarmi ulteriormente.
Ti
si vede sempre più spesso nella doppia veste di solista e direttore. Cosa
spinge un solista affermato e con una brillantissima carriera a mettersi in gioco
anche in un altro ruolo, peraltro così complesso?
La voglia di spostare l’asticella, di
cercare altre sfide, altri limiti da superare. Per un musicista che voglia
condividere la gioia della musica avere un’orchestra a disposizione può
rappresentare il massimo.
(Foto di Fulvia Farassino) |
È celebre una frase di Jascha Heifetz: «Si sente sempre
parlare dell’“artista delicato e sensibile”. Vi posso assicurare che ci
vogliono i nervi di un torero, lo stomaco di un contadino, la vitalità di una
entraîneuse di night club, il tatto di un diplomatico e la concentrazione di un
monaco tibetano per condurre la vita stremante di un virtuoso». Quanto sei
d’accordo con il grande violinista?
Totalmente! Anche se è altrettanto
vero che senza la necessaria dose di sensibilità e di talento non si va da
nessuna parte...
Molti
compositori contemporanei hanno scritto musiche appositamente per te: durante
la genesi di queste opere hanno anche chiesto la tua collaborazione?
Ogni compositore naturalmente lavora
in maniera personale e, quindi, non è scontato che durante la creazione ci
siano contatti con l'interprete: alcuni amano condividere passo dopo passo la
gestazione; altri si presentano all’ultimo momento; altri ancora anche “dopo”
l’ultimo momento... !
Com’è
nata l’idea di fondare “I Solisti di Pavia”?
In un periodo della mia vita musicale
mi sentivo un po’ isolato: ero molto occupato a perfezionare il repertorio del
violoncello e ho cominciato a sentire un’enorme mancanza della musica da
camera, del suonare insieme ad altri, del condividere la musica. In quel
periodo si stava consolidando il mio rapporto con la città di Pavia e con le
sue Istituzioni e così, nel 2001, con il decisivo apporto della Fondazione
Banca del Monte di Lombardia e con l’appoggio di Rostropovich, che in quel
momento frequentavo con regolarità, abbiamo creato un gruppo d’archi capace di
modularsi a ogni esigenza. Senza dubbio è, tra i risultati che ho ottenuto,
quello di cui vado più fiero.
Sei
nato in una famiglia di musicisti: quindi, avvicinarsi alla musica è stato, per
te, naturale. Quando la musica è diventata davvero una tua scelta?
Più tardi di quello che si potrebbe
pensare: direi verso l’adolescenza, quando è apparsa nella mia vita la musica
da camera. Ho iniziato a godere appieno della musica quando ho cominciato a
suonare con gli altri, a condividere l’esperienza emotiva e intellettuale della
costruzione di un’interpretazione. Raggiunta questa consapevolezza non ho più
avuto dubbi.
Hai
dichiarato, in diverse occasioni, che i tuoi incontri chiave sono stati quelli
con Antonio Janigro, Riccardo Muti e Mstislav Rostropovich. Se dovessi
descrivere, in sintesi, quello che ciascuno di loro ti ha lasciato in eredità …
Janigro la disciplina mentale, Muti la
passione e la partecipazione, Rostropovich la genuinità e la generosità.
(Foto di Silvia Lelli) |
A
soli 22 anni sei diventato Primo Violoncello dell’Orchestra del Teatro alla
Scala e hai mantenuto questo ruolo per 11 anni. Che ricordi hai di
quell’esperienza e quanto ti è tornata utile nella tua carriera da solista?
È stata un’esperienza meravigliosa:
porto con me una tale quantità di bei ricordi che non ho abbastanza spazio qui
per elencarli tutti. Poter fare musica con tutti quei grandi direttori,
cantanti e strumentisti è stata una palestra immensa. L'orchestra, poi, è una vera
e propria scuola di vita.
Insegni
violoncello al Conservatorio della Svizzera Italiana, alla Pavia Cello Academy
e in diverse masterclass: che insegnante sei?
Bisognerebbe chiederlo ai miei
allievi! Posso solo dire che il mio obiettivo è quello di riuscire a mettere a
disposizione dei miei ragazzi – nel miglior modo possibile per ognuno di loro –
tutto quel poco che ho imparato finora.
C’è
una composizione che non hai mai eseguito in pubblico e che ti piacerebbe
suonare?
Sul mio leggio in questo periodo c'è
il Concerto di Walton.
Molti
musicisti cercano di avvicinare i giovani alla musica classica adottando
soluzioni originali, a volte anche discutibili: abbigliamento informale, grande
cura per l’immagine, uso abbondante delle nuove tecnologie, concerti in luoghi
più adatti ad altri eventi… La musica classica ha davvero bisogno di questo per
avvicinare nuovo pubblico?
L'arte è un valore assoluto,
universale, con un enorme potere educativo. Il modo in cui la si veicola o la
si propone deve naturalmente stare al passo coi tempi, ma non può diventare
prevalente sulla sua essenza. Quindi, bene all’informalità e alla fluidità
delle informazioni, ma attenzione sempre molto alta per la qualità.
Che
rapporto hai tu con la tecnologia e quanto la ritieni utile alla musica
classica?
Amo molto la tecnologia – sto
utilizzando il mio Ipad anche per rispondere a quest’intervista – e ne faccio
un grande uso, anche professionale: registro tutta l’organizzazione della mia
attività su calendari sincronizzati e le schede di ogni concerto che eseguo. Ho
creato anche un archivio didattico per conservare traccia del lavoro svolto con
i ragazzi, in modo da avere sempre sotto controllo i loro progressi: inoltre, per
la mia edizione delle Suites di Bach [Edizioni
Carisch 2010, n.d.r.] ho utilizzato un
software per la scrittura musicale. Dico sempre che tutto questo si può fare anche
con un foglio e una penna ma la tecnologia mi diverte molto ed è diventata una
passione parallela.
Com’è
una tua giornata tipo quando non sei impegnato in tournée?
Mi piace molto stare a casa con la mia
famiglia, tenendo il violoncello fuori dalla sua custodia: io ci giro intorno
continuamente, dalla mattina alla sera, cercando i momenti più adatti per
trarre il meglio dallo studio.
C’è
un concerto che ricordi con particolare affetto?
Per mia fortuna ne ho più di uno, ne
citerò almeno tre: il Concerto di
Saint-Saens diretto da Rostropovich con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della
Rai nel 1999 a Torino (la mia città!); il Concerto
di Shostakovich diretto da Muti al Teatro alla Scala con la Filarmonica nel
1998 e il Concerto di Schumann
diretto da Chailly al Musikverein di Vienna con la Gewandhausorchester nel
2010.
Tra
i violoncellisti del passato c’è qualcuno che senti più vicino al tuo modo di
suonare?
Durante la mia formazione ascoltavo
continuamente Rostropovich di cui adoro praticamente tutto: riusciva sempre a
emozionarmi in modo totale, suonava in modo eccitante! Avevo, però, anche una
particolare predilezione per Pierre Fournier: ero affascinato dalla sua nobiltà,
dal colore del suo suono e dal suo caldo vibrato.
E
tra i violoncellisti di oggi?
Nessuno in particolare.
Che
consigli daresti a un giovane che oggi vuole intraprendere la carriera
musicale?
Di armarsi di quantità industriali di
pazienza, determinazione, disciplina e passione, ma, soprattutto, di coltivare
anche altre discipline. Oggi non è più proponibile lo studio esclusivo della
musica, almeno fino al momento in cui si raggiunga la consapevolezza che questa
sta diventando davvero la nostra unica strada e questo, più che un consiglio, è
un augurio!
Adriana
Benignetti