sabato 6 ottobre 2012

Incontro ravvicinato con … Enrico Dindo

«Ho iniziato a godere appieno della musica quando ho cominciato a suonare con gli altri, a condividere l’esperienza emotiva e intellettuale della costruzione di un’interpretazione»

(Foto di Fulvia Farassino)

Pochi mesi fa sei stato nominato “Accademico” di Santa Cecilia. Che significato ha per te quest’investitura?
È un grande onore far parte di un gruppo di illustri musicisti italiani: sfogliare l’elenco mi fa venire i brividi. Lo vivo come un riconoscimento del lavoro svolto finora ma, soprattutto, come uno stimolo a migliorarmi ulteriormente. 



Ti si vede sempre più spesso nella doppia veste di solista e direttore. Cosa spinge un solista affermato e con una brillantissima carriera a mettersi in gioco anche in un altro ruolo, peraltro così complesso?
La voglia di spostare l’asticella, di cercare altre sfide, altri limiti da superare. Per un musicista che voglia condividere la gioia della musica avere un’orchestra a disposizione può rappresentare il massimo.

(Foto di Fulvia Farassino)


È celebre una frase di Jascha Heifetz: «Si sente sempre parlare dell’“artista delicato e sensibile”. Vi posso assicurare che ci vogliono i nervi di un torero, lo stomaco di un contadino, la vitalità di una entraîneuse di night club, il tatto di un diplomatico e la concentrazione di un monaco tibetano per condurre la vita stremante di un virtuoso». Quanto sei d’accordo con il grande violinista?
Totalmente! Anche se è altrettanto vero che senza la necessaria dose di sensibilità e di talento non si va da nessuna parte...



Molti compositori contemporanei hanno scritto musiche appositamente per te: durante la genesi di queste opere hanno anche chiesto la tua collaborazione?
Ogni compositore naturalmente lavora in maniera personale e, quindi, non è scontato che durante la creazione ci siano contatti con l'interprete: alcuni amano condividere passo dopo passo la gestazione; altri si presentano all’ultimo momento; altri ancora anche “dopo” l’ultimo momento... !

Com’è nata l’idea di fondare “I Solisti di Pavia”?
In un periodo della mia vita musicale mi sentivo un po’ isolato: ero molto occupato a perfezionare il repertorio del violoncello e ho cominciato a sentire un’enorme mancanza della musica da camera, del suonare insieme ad altri, del condividere la musica. In quel periodo si stava consolidando il mio rapporto con la città di Pavia e con le sue Istituzioni e così, nel 2001, con il decisivo apporto della Fondazione Banca del Monte di Lombardia e con l’appoggio di Rostropovich, che in quel momento frequentavo con regolarità, abbiamo creato un gruppo d’archi capace di modularsi a ogni esigenza. Senza dubbio è, tra i risultati che ho ottenuto, quello di cui vado più fiero.



Sei nato in una famiglia di musicisti: quindi, avvicinarsi alla musica è stato, per te, naturale. Quando la musica è diventata davvero una tua scelta?
Più tardi di quello che si potrebbe pensare: direi verso l’adolescenza, quando è apparsa nella mia vita la musica da camera. Ho iniziato a godere appieno della musica quando ho cominciato a suonare con gli altri, a condividere l’esperienza emotiva e intellettuale della costruzione di un’interpretazione. Raggiunta questa consapevolezza non ho più avuto dubbi.

Hai dichiarato, in diverse occasioni, che i tuoi incontri chiave sono stati quelli con Antonio Janigro, Riccardo Muti e Mstislav Rostropovich. Se dovessi descrivere, in sintesi, quello che ciascuno di loro ti ha lasciato in eredità …
Janigro la disciplina mentale, Muti la passione e la partecipazione, Rostropovich la genuinità e la generosità.

(Foto di Silvia Lelli)

A soli 22 anni sei diventato Primo Violoncello dell’Orchestra del Teatro alla Scala e hai mantenuto questo ruolo per 11 anni. Che ricordi hai di quell’esperienza e quanto ti è tornata utile nella tua carriera da solista?
È stata un’esperienza meravigliosa: porto con me una tale quantità di bei ricordi che non ho abbastanza spazio qui per elencarli tutti. Poter fare musica con tutti quei grandi direttori, cantanti e strumentisti è stata una palestra immensa. L'orchestra, poi, è una vera e propria scuola di vita.

Insegni violoncello al Conservatorio della Svizzera Italiana, alla Pavia Cello Academy e in diverse masterclass: che insegnante sei?
Bisognerebbe chiederlo ai miei allievi! Posso solo dire che il mio obiettivo è quello di riuscire a mettere a disposizione dei miei ragazzi – nel miglior modo possibile per ognuno di loro – tutto quel poco che ho imparato finora.


C’è una composizione che non hai mai eseguito in pubblico e che ti piacerebbe suonare?
Sul mio leggio in questo periodo c'è il Concerto di Walton.

Molti musicisti cercano di avvicinare i giovani alla musica classica adottando soluzioni originali, a volte anche discutibili: abbigliamento informale, grande cura per l’immagine, uso abbondante delle nuove tecnologie, concerti in luoghi più adatti ad altri eventi… La musica classica ha davvero bisogno di questo per avvicinare nuovo pubblico?
L'arte è un valore assoluto, universale, con un enorme potere educativo. Il modo in cui la si veicola o la si propone deve naturalmente stare al passo coi tempi, ma non può diventare prevalente sulla sua essenza. Quindi, bene all’informalità e alla fluidità delle informazioni, ma attenzione sempre molto alta per la qualità.

Che rapporto hai tu con la tecnologia e quanto la ritieni utile alla musica classica?
Amo molto la tecnologia – sto utilizzando il mio Ipad anche per rispondere a quest’intervista – e ne faccio un grande uso, anche professionale: registro tutta l’organizzazione della mia attività su calendari sincronizzati e le schede di ogni concerto che eseguo. Ho creato anche un archivio didattico per conservare traccia del lavoro svolto con i ragazzi, in modo da avere sempre sotto controllo i loro progressi: inoltre, per la mia edizione delle Suites di Bach [Edizioni Carisch 2010, n.d.r.] ho utilizzato un software per la scrittura musicale. Dico sempre che tutto questo si può fare anche con un foglio e una penna ma la tecnologia mi diverte molto ed è diventata una passione parallela.

Com’è una tua giornata tipo quando non sei impegnato in tournée?
Mi piace molto stare a casa con la mia famiglia, tenendo il violoncello fuori dalla sua custodia: io ci giro intorno continuamente, dalla mattina alla sera, cercando i momenti più adatti per trarre il meglio dallo studio.



C’è un concerto che ricordi con particolare affetto?
Per mia fortuna ne ho più di uno, ne citerò almeno tre: il Concerto di Saint-Saens diretto da Rostropovich con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nel 1999 a Torino (la mia città!); il Concerto di Shostakovich diretto da Muti al Teatro alla Scala con la Filarmonica nel 1998 e il Concerto di Schumann diretto da Chailly al Musikverein di Vienna con la Gewandhausorchester nel 2010.

Tra i violoncellisti del passato c’è qualcuno che senti più vicino al tuo modo di suonare?
Durante la mia formazione ascoltavo continuamente Rostropovich di cui adoro praticamente tutto: riusciva sempre a emozionarmi in modo totale, suonava in modo eccitante! Avevo, però, anche una particolare predilezione per Pierre Fournier: ero affascinato dalla sua nobiltà, dal colore del suo suono e dal suo caldo vibrato.

E tra i violoncellisti di oggi?
Nessuno in particolare.




Che consigli daresti a un giovane che oggi vuole intraprendere la carriera musicale?
Di armarsi di quantità industriali di pazienza, determinazione, disciplina e passione, ma, soprattutto, di coltivare anche altre discipline. Oggi non è più proponibile lo studio esclusivo della musica, almeno fino al momento in cui si raggiunga la consapevolezza che questa sta diventando davvero la nostra unica strada e questo, più che un consiglio, è un augurio!


Adriana Benignetti