venerdì 7 aprile 2017

“I tedeschi, gli ebrei e la musica” di Daniel Barenboim

I tedeschi, gli ebrei e la musica
di Daniel Barenboim  

Daniel Barenboim e la West-Eastern Divan Orchestra
(foto: danielbarenboim.com)

La crudeltà della memoria si manifesta nel rievocare ciò che era disperso nella dimenticanza. 
NAGIB MAHFUZ


Questa affermazione di Nagib Mahfuz esprime qualcosa che credo sia molto importante per i tedeschi e gli ebrei, da quando i due popoli hanno cominciato ad affrontare il problema dei loro rapporti nel passato. Alcuni argomenti richiedono la generosità dell’oblio e altri esigono l’onestà del ricordo. Dal mio punto di vista questa è la difficoltà che affrontano le generazioni dei tedeschi del dopoguerra, sebbene io non abbia mai subito nessun atto di xenofobia o antisemitismo in Germania. Una recente dichiarazione rilasciata da un noto politico di Berlino sull’“ebreo Barenboim” è stata fatta in un contesto che non ha nulla a che fare con l’ebraismo e la interpreto come il segno della sua incomprensione di questa cultura. 

Certamente non è facile spiegare l’ebraismo: è in parte religione, in parte tradizione, in parte nazione, in parte un popolo straordinariamente diversificato. È un tema difficile da affrontare per gli ebrei quanto per chiunque altro, specialmente in un paese come la Germania, che ha in comune con gli ebrei un passato così spaventoso. Purtroppo, dopo aver trascorso anni in Germania, ho un’impressione sempre più radicata che questa parte della storia tedesca non sia stata assimilata o compresa da molti tedeschi. Tale ignoranza potrebbe portare a un nuovo antisemitismo o a un filosemitismo altrettanto sbagliato. Non credo nella colpa collettiva, specialmente dopo l’avvicendarsi di tante generazioni, e perciò non ho problemi a vivere e lavorare in Germania. Ma nello stesso tempo mi aspetto che nessun tedesco dimentichi questa parte della storia del suo paese e che sia particolarmente cauto nel considerarla. Ciò sarà possibile solamente a condizione che ogni tedesco conosca la propria identità e il passato che ha contribuito a formarlo; perché se si sopprime un importante elemento di se stessi, i rapporti con gli altri risultano forzati. Tali riflessioni hanno portato alla questione dell’identità tedesca e alla questione generale di ciò di cui è fatta un’identità. Un popolo o una persona hanno solo un’identità? La tradizione ebraica ha due tendenze distinte: quella più fondamentale, rappresentata dai filosofi e poeti e studiosi che erano interessati solo alle questioni e alla Weltanschauung ebraiche; e l’altra tendenza associata a grandi figure come Spinoza o Einstein e in una certa misura anche a Heinrich Heine, che applicava le tradizioni del pensiero ebraico ad altre culture, compresa quella tedesca, e ad altre tematiche. Non è difficile rendersi conto che gli ebrei abbiano sviluppato una duplice identità.

Secondo la mia opinione è impossibile che qualcuno, all’inizio del XXI secolo, vanti credibilmente un’identità univoca. Una delle difficoltà del nostro tempo è la tendenza a occuparsi di dettagli sempre più piccoli, trascurando così ciò che li lega a tutto il resto e come, insieme, formino parte di un tutto. I tedeschi hanno donato tanto al mondo con l’illuminismo spirituale (basti pensare a Bach, Beethoven, Wagner, Heine, Goethe, solo per nominare alcuni esponenti), ma forse le orribili esperienze dell’epoca nazista e del periodo seguente hanno reso particolarmente difficile per un tedesco il compito di confrontarsi con la propria storia.

Personalmente, considero la questione dell’identità sia come musicista, sia dalla prospettiva della mia storia. Sono nato in Argentina: i miei genitori erano ebrei russi, sono cresciuto in Israele e ho vissuto la maggior parte della mia vita adulta in Europa. Penso nella lingua in cui, di volta in volta, mi capita di parlare. Mi sento tedesco quando dirigo Beethoven e italiano quando dirigo Verdi. Questo non mi dà la sensazione di essere in autentico, al contrario. L’esperienza di suonare stili musicali molto diversi può essere estremamente illuminante. Quando ritorni a un pianissimo di Beethoven dopo aver suonato un pianissimo di Debussy, le differenze diventano più chiare e ti rendi conto di avere a che fare con suoni completamente diversi. In Debussy il pianissimo dev’essere incorporeo, mentre in Beethoven deve avere un nucleo fisico di espressione e suono.

È del tutto naturale considerare preziose le escursioni in culture diverse, e in questo senso il caso della Germania è straordinario e non dovrebbe esserci falsa modestia al riguardo. L’opera di Beethoven fu tedesca e, nello stesso tempo, universale, e il popolo tedesco molto più di altri si è occupato di culture passate, per esempio della mitologia, letteratura e filosofia greche. Tutta l’opera di Beethoven è basta in qualche grado sul principio greco della catarsi, che riflette un tipico atteggiamento tedesco: non si dovrebbe temere di penetrare nel buio per poi riemergere alla luce. Il primo movimento della Quarta sinfonia, per esempio, prende avvio dalle profondità del caos e trova uno straordinario percorso verso l’ordine e l’esultanza.

Ho trovato particolarmente calzante il discorso pronunciato dal presidente tedesco Johannes Rau, il 9 novembre scorso, quando ha parlato delle differenze tra nazionalismo e patriottismo. Ha detto: «Il patriottismo può fiorire solo dove non viene concesso spazio al razzismo e al nazionalismo. Patriota è chi ama la propria patria. Nazionalista è chi disprezza la patria altrui».

Queste mi sembrano affermazioni molti importanti. Credo che molti tedeschi, anche per timore del nazionalismo, abbiano perso il senso del patriottismo, l’affetto per il proprio paese, nella seconda metà del XX secolo, e questo è un male. Ciò p avvenuto durante un periodo di immigrazione su grande scala, in cui il numero degli stranieri che volevano venire o erano costretti a venire in Germania era più elevato di quanto fosse mai stato prima. La Germania ha aperto le sue porte e ha fatto uso degli immigrati senza aver acquistato la tolleranza di uno stato basato sull’immigrazione come, per esempio, l’Argentina o gli Stati Uniti. Mi sembra che l’ostilità nei confronti degli stranieri derivi dal fatto che le ultime due o tre generazioni di tedeschi non hanno capito che cosa significhi emigrare. Non comprendono che è possibile avere più di un’identità nello stesso tempo e non accettano che persone di origine straniera, con i loro costumi e la loro cultura, possano entrare a far parte del paese senza minacciare l’identità tedesca.

Il migliore esempio di questo specifico problema è l’attuale situazione a Berlino: molti temono che stia diventando una città multiculturale o multidimensionale. Tale timore trae origine da un passato che non è stato completamente assimilato. Berlino era l’unica città divisa della Germania, e le sue due metà potevano contare su un eccezionale sostegno: sia la Repubblica Federale Tedesca, sia la Repubblica Democratica Tedesca consideravano Berlino una città con uno statuto speciale. La mia speranza è che Berlino non perda il suo speciale status a causa della riunificazione: al contrario. A causa della divisione, protrattasi per oltre quarant’anni, e della coesistenza fianco a fianco dell’Est e dell’Ovest, Berlino, a mio modo di vedere, ha un potenziale unico nell’abbracciare le differenze, un potenziale di cui ora bisognerebbe fare uso. Invece di deplorare la divisione causata dalla storia, la si dovrebbe trattare come una forza positiva, per Berlino e anche per i rapporti della città con il resto della Germania e con altri paesi. Dopo tutto, Berlino è l’unica città in cui una delegazione di Mosca non si sentirà completamente straniera all’Ovest e in cui, nello stesso tempo, una delegazione da Washington non si sentirà completamente straniera all’Est.

Se ci preme di comprendere i fenomeni naturali o le qualità degli esseri umani o il rapporto con Dio o esperienze spirituali diverse, possiamo imparare molto dalla musica. La musica è così importante e interessante per me perché è nello stesso tempo tutto e nulla. Se desideri imparare a vivere in una società democratica, farai bene a suonare in un’orchestra, perché apprenderai quando guidare e quando seguire. Lascerai spazio agli altri e nello stesso tempo non avrai inibizioni a rivendicare uno spazio per te stesso. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, la musica rimane il modo migliore per evadere dai problemi dell’esistenza umana.

Per me esiste una sola chiara definizione della musica, di Ferruccio Busoni, che diceva: «La musica è aria sonora». Qualsiasi altra cosa venda detta sulla musica si riferisce alle differenti impressioni che suscita negli ascoltatori: viene percepita come poetica o sensuale o spirituale o emotiva o affascinante sotto il profilo formale, le possibilità sono innumerevoli. Dato che la musica è ogni cosa e nessuna nello stesso tempo, è facile che se ne abusi, come fu fatto dai nazisti. In anni recenti, in occasione del workshop Divano occidentale-orientale a Weimar, musicisti di Israele e dei paesi arabi hanno collaborato, dimostrando che la musica poteva favorire riconciliazioni e creare amicizie fino ad allora ritenute impossibili; ma questo non significa che la musica risolverà i problemi del Medio Oriente. Può essere la migliore scuola di vita e nello stesso tempo il modo più efficace per evadere.

29 marzo 2001


(Daniel Barenboim, Edward W. Said, Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la società, con uno scritto di Claudio Abbado,  cura e prefazione di Ara Guzelimian, traduzione di Piero Budinich, il Saggiatore, Milano 2008, pp. 146-149)


Adriana Benignetti