sabato 3 giugno 2017

“La Bohème: la trama”

La bohème
Scene liriche in quattro quadri

Musica
Giacomo Puccini (Lucca, 23 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924)


Libretto
Luigi Illica (Castell’Arquato, 9 maggio 1857 – Piacenza, 16 dicembre 1919) e Giuseppe Giacosa (Colleretto Giacosa, 21 ottobre 1847 – Ivi, 1 settembre 1906), dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger

Prima rappresentazione
Torino, Teatro Regio, 1° febbraio 1896

Personaggi

Mimì, soprano
Musetta, soprano
Rodolfo, poeta, tenore
Marcello, pittore, baritono
Schaunard, musicista, baritono
Colline, filosofo, basso
Parpignol, venditore ambulante, tenore
Benôit, padrone di casa, basso,
Il sergente dei doganieri, basso

Studenti, sartine, borghesi, bottegai e bottegaie, venditori ambulanti, soldati, camerieri da caffè, ragazzi e ragazze.

La trama

Quadro primo

Il freddo e Parigi sono il fondale di verità della Bohème . Tutta l’opera si svolge nell’attesa che Parigi resti tale senza più il freddo che, da reale, si assume presto a metafora dell’esistenza. Il dialogo iniziale tra Marcello e Rodolfo (“Nei cieli bigi”) sottintende tutto il consueto conflitto di arte e realtà, nella verifica del classico carmina non dant panem ; in questo dialogo incombe il fondale: la città sotto la neve e fumante in mille comignoli, che Rodolfo guarda dall’alto della soffitta, mentre impreca contro il non funzionante, perché non alimentato né dalla sua né da altre arti, caminetto (nel quale sarà da scorgere per simbolo la ricerca del quasi pascoliano nido di quiete che percorre intera tutta la storia di Puccini come autore: la casetta rammentata da Tosca al suo Mario, il nido profanato di Butterfly, quello invaso dai Proci buoni di Minnie, di Frugola nel Tabarro – all’ombra sentimentale di un’altra Parigi, dove tuttavia un venditore di canzonette cita ‘la canzone di Mimì’ – di Ping, Pang e Pong alla corte di Turandot). Anche la stagione dell’amore, benché si sia in gioventù ( Bohème è una tragedia della giovinezza), è fredda in questa Parigi 1830, come Marcello dice: «Ho diacciate / le dita quasi ancora le tenessi immollate / giù in quella gran ghiacciaia che è il cuore di Musetta» (i verbi d’esordio di Marcello erano stati «ammollisce e assidera», qui replicati in «immollate» e «ghiacciaia», per dire minimamente del cesello librettistico); ma ci vuol più ad alimentare un cuore che un caminetto; Rodolfo e Marcello sono d’accordo che «L’amore è un caminetto che sciupa troppo... e in fretta!». Il cinismo di Marcello perdurerà, quello di Rodolfo si scioglierà presto: intanto bruciano quel che trovano nell’esperienza loro (rapidamente l’orchestra accompagna la carta che si disfà in cenere in un «lieto baglior» breve breve, con l’orchestra che cade appresso dall’alto in basso; il fuoco si riprende, con l’orchestra detta dai fiati, poi da un pizzicato d’archi, all’aggiunta di uno scartafaccio più consistente, presto consumato anche questo; il tema rallentato dagli archi fino a morire è il fuoco stesso che si spegne: dunque l’autore è stato di poca consistenza. Nell’orchestra che segue il piroettare delle fiamme sarà da vedersi non soltanto un gusto mimetico, ma il segno del particolare realismo di Puccini, bilanciato fra impressione ed espressione). È la vigilia di Natale e questa gioventù che brucia ha molta fame. Ed ecco all’improvviso comparire legna, sigari e vino: Schaunard ha trovato modo di raccattare le monete mai viste nella povertà e i vettovagliamenti sognati: ma sono destinati al futuro, non si può stare in casa nella vigilia del giorno di festa. Parigi, a chi se l’immagina senza esserci stato, come allora Puccini, che quando la vedrà ne resterà deluso, è tutti i suoi monumenti, ma è soprattutto un posto non monumentale. Parigi è il Quartiere Latino, dove si presume di mangiar bene e a poco, che è quel che tutti cercano. E non c’è affitto da pagare che tenga: si può ben essere cinici con un padrone di casa, Benoît, che alla sua età è un vecchio sporcaccione; al Mabil, l’altra sera, s’è fatto cogliere in peccato d’amore con una donna di una certa consistenza, ma giusta per lui che detesta le magre; donde il ricatto: o rassegnarsi a che si spifferi tutto alla di lui moglie o rinunciare all’affitto. È costretto a rinunciare con una «dolce violenza», come recita la didascalia di Schaunard mentre sull’inizio lo costringe a sedere. Mentre Schaunard, Colline e Marcello vanno al Quartiere Latino, Rodolfo, che deve terminare l’articolo di fondo del ‘Castoro’, resta in casa. Mestierante com’è pensa di sbrigarsela in fretta, scrive ma accartoccia e getta via, accorgendosi presto di non essere in vena. Mentre sta lì, bussano alla porta. È Mimì, la dirimpettaia, che non sa più come accendere il lume che le si è spento, e che, in aggiunta, subito sviene, suscitando le preoccupazioni di Rodolfo, che le offre un po’ di quel vino col quale ha da poco brindato con gli amici, facendo ben inciuccare Benoît. «Poco, poco» dice Mimì, che già si sente meglio, ma intanto ha perso la chiave di casa. Si mette a cercarla con Rodolfo, che la trova e la nasconde perché vuol stare con Mimì: un po’ per il buio, un po’ perché così gli piace, le struscia la mano e le dice com’è fredda, corteggiandola; anzi, visto che ci si trova, le racconta in breve la sua storia: di un poeta che vive con poco (“Che gelida manina”), in lieta povertà. Mimì si mette sulla stessa corda e gli racconta di essere una che ricama, a cui piacciono i fiori, che prega ma non va sempre a messa: e dice di aspettare lo «sgelo», per inebriarsi del primo sole di aprile (“Sì, mi chiamano Mimì”). Insomma si innamorano sotto la sigla di questo ‘sgelo’ anticipato dal cuore, che è come il motore nascosto ma di cui si sente il rombo in Bohème (“O soave fanciulla”). Vanno anche loro al Quartiere Latino, al caffè Momus, benché Rodolfo abbia fatto capire, con sbrigativa e tuttavia galante esplicitezza, che sarebbe stato meglio restare nel caldo improvviso di quella soffitta, dovuto non solo e non proprio alle fascine procurate da Schaunard.

Quadro secondo

C’è festa e c’è folla al Quartiere Latino, ci sono venditori e negozi; così, mentre per conto loro gli amici vanno alla ricerca di un posto dove mangiare, possibilmente un tavolino da Momus, Rodolfo regala a Mimì una cuffietta rosa, che le sta così bene visto com’è bruna. Colline, intanto, s’è comprato una zimarra rattoppata ma dignitosa. L’altra coppia di Bohème è travagliata, più spine che rose. Marcello e Musetta, allegra donnetta, hanno litigato, ma, suscitando e per suscitare la rabbia di Marcello, lei riappare in disinvolto fulgore, annunciandosi con un valzerino che fa impazzire in un altro modo da Marcello l’attuale cavalier servente (“Quando me n’vo’”). Musetta fa di cognome Tentazione nella descrizione da rapace che ne fa Marcello, fa per vocazione «la Rosa dei Venti» e d’ordinario si ciba di cuori. Intanto Musetta celebra le proprie lodi, che appaiono al cavalier servente Alcindoro, nientemeno che un consigliere di stato, un «canto scurrile»: dunque Musetta è cantante, canta proprio nella realtà della scena, non soltanto nella scena d’opera, e come una diva mette letteralmente ai suoi piedi Alcindoro (dice di un dolore e di un bruciore e al «dove?» di Alcindoro, che già «si china per slacciare la scarpa a Musetta», risponde «al pie’», «mostrando il piede con civetteria», vezzoso finale di un monologo vanitosissimo che immette in una scena di piena coralità per dar esito al molto corale secondo quadro dell’opera, che s’esaurisce al declinare della vigilia del dì di festa in una malinconiosa lontananza di tamburi). Mentre Alcindoro va a procurare un altro paio di scarpe per far star comoda Musetta, Marcello, irresistibilmente riconquistato, se la porta via in braccio. Il consigliere di stato riappare con un cartoccio racchiudente le calzature, in una scena tenera e ironica, non per lui: addossandosi ruolo, costi quel che costi, di cagnolino pronto ai piedini vezzosi della sua padrona. E, alla presentazione del conto che gli è stato lasciato dall’allegra brigata, non sa più cosa dire.

Terminato questo blocco di sostanziosa unità spazio-temporale, la narrazione di Bohème fa un salto. Per l’intanto è comunque da notare come la coerenza della narrazione abbia udibile riscontro nello svolgimento musicale. Se alla ricchezza melodica s’era voluta spesso contrapporre da taluni una relativa parsimonia tematica, bisogna dire che l’oculatezza di Puccini nello sfoderare temi su temi ha una sua propria necessità di tessitura narrativa, con riprese ed espansioni calibrate, luminosamente procurate, costituenti la quarta dimensione del libretto. Per dire che la riuscita di Bohème sta nell’assoluta adeguatezza e interdipendenza di parole, situazione drammatica e musica. Per il libretto strettamente inteso, ne va riconosciuta la notevole consistenza drammaturgica: per quanto contrastato, il lavoro svolto da Illica e Giacosa sotto le non flessibili direttive di Puccini è riuscito nell’impresa di una delle opere più felici dell’intero repertorio, e il tempo ha mostrato la consistenza di quel valore, degno della musica che lo porta. Alla quale musica, per buona parte ma non per l’integrità dell’opera, arrise subito successo, anche se poi il giudizio complessivo volle vedere un regresso rispetto a Manon e al suo presunto sinfonismo. In Bohème anche la discussa questione del nodo di naturalismo, verismo e decadentismo in Puccini è affare ingarbugliato. Si direbbe che questa musica ‘tiene’, in senso anche, se non esclusivamente, tecnico e retorico, a una dolcezza che diventa fatto orchestrale, ovvero lirismo delle piccole cose di un piccolo mondo che si immagina come compiuto universo, in sé conchiuso. Una tradizione molto italiana, da paese del melodramma, ma non a caso trapiantata in ambiente di Francia, tra finezza e geometria; non olî, non acquerelli: l’orchestra di Bohème colora e contorna col pastello e talvolta con la disinvoltura di un artigiano dei gessetti, o del carboncino; ma di quell’artigianato sa sempre fare un’arte per intensità della mano. Come quest’arte somigli tanto a un artigianato e non lo sia, è tutto il mistero del genio Puccini.

Quadro terzo

«La voce di Mimì aveva una sonorità che penetrava nel cuore di Rodolfo come i rintocchi di un’agonia», aveva scritto Murger, e nel bel collage che all’inizio del terzo atto profila Mimì di petto a Musetta («possedeva il genio dell’eleganza [...] non aveva che una regola, il capriccio»), s’annunciano due strade che, portando entrambe alla femminilità, ovunque s’incontrano e ovunque divergono. Qualche mese dopo, a febbraio, l’arte sembra essere sconfitta dalla vita alla barriera d’Enfer. Marcello rifà l’insegna di un cabaret: il quadro che dipingeva all’inizio ora (per le solite ragioni di lunario) ha cambiato titolo. Annunciata da colpi di tosse, arriva Mimì: ha litigato con Rodolfo e non sa ancora che a Parigi, dai tempi di Violetta, si muore di tisi. Nascostasi Mimì, ecco Rodolfo, che spiega a Marcello i motivi del litigio: Mimì è una civetta, dice, e poi, prestamente pentendosi: è tanto malata, questa è la verità, e lui sente e sa di non poterle offrire giusto ricovero. Mimì si scopre, ma ha già scoperto, dalle parole di Rodolfo, di dover morire. Decide di tornarsene al «solitario nido» da dove uscì per il richiamo d’amore. Prega Rodolfo di consegnare al portiere le poche cose che lascia: lui potrà tenersi la cuffietta rosa per ricordo; l’addio è senza rancore, anzi è rinviato alla stagione dei fiori, nel mese più crudele ma in cui sembra di non essere soli, ad aprile (“Donde lieta uscì... Addio dolce svegliare”). Musetta e Marcello stanno in un’altra puntata del loro amore litigarello: ed è quartetto.

Quadro quarto

Tempo dopo, nella soffitta dell’inizio, Rodolfo e Marcello stanno ancora a voler credere di fare arte. Pensano alle loro due civette (“In un coupé... O Mimì, tu più non torni”): Mimì e Musetta stanno lontane (Mimì, pare, amoreggia con un viscontino), restano oggetti coi quali ricordarle, come souvenir o surrogati dell’amore che fu: per Rodolfo, la cuffietta rosa. Arrivano Schaunard e Colline e si fa finta di banchettare col poco che c’è; poi si fa finta di divertirsi, con danze e danze: minuetto, pavanella, fandango, quadriglia, dove Puccini cita ironicamente il repertorio classico; ma, mentre cita e fa parodia, improvvisamente l’orchestra si impenna in un accordo tragico: «C’è Mimì che mi segue e che sta male», dice Musetta entrando. Accolgono la poveretta che è tanto malata e che, abbandonato il viscontino, la sua ripicca alla gelosia, torna per morire accanto al suo geloso Rodolfo. Fa freddo: Musetta incarica Marcello di andare a vendere gli orecchini per comprare qualche cordiale e un manicotto contro il freddo, per chiamare un dottore; il grande Colline, tirando le fila del suo sistema filosofico, si vende il pastrano, la sua vecchia zimarra, e allo scopo esce con Schaunard (“Vecchia zimarra”). Mimì, atteggiando con la voce un’aria popolare (la forma metrica del testo è uno strambotto – “Sono andati? Fingevo di dormire”) dice di aver finto di dormire per restare sola col suo Rodolfo: che qui lancia il più tragicamente straziato e appassionato dei suoi richiami d’amore, contrappasso al lirico abbandono di quell’altra volta soli in soffitta. Insieme si danno a rammemorare i giorni lieti di “Mi chiamano Mimì” e di “Che gelida manina”. Mimì s’era allora subito accorta di tutto, della chiave nascosta, per esempio, ed era stata al gioco, ingenua ma non tanto. Tossisce. Tutti si accorgono di quel che sta per capitare, tranne Rodolfo, che non vuole cedere al destino. Sul manoscritto della partitura è il punto in cui Puccini, che sapeva quando far morire le donne fragili che creava, che sapeva come colpire i cuori per spillarne lacrime, ha disegnato il teschio con le due ossa incrociate sotto, come lo stendardo dei pirati, lui pirata del sentimento in musica. Sotto teschio e ossa, in atto di suprema consapevolezza teatrale e non meno supremo, ma provvisorio, cinismo, Puccini ha scritto «Mimì». In una lettera, commentando a ridosso della fine della stesura (10 novembre 1895, l’inizio era stato nel gennaio del ‘93), cedendo per una volta ai meccanismi del sentimento che dominava da maestro, almeno come le sue note, scrisse dell’ «effetto di avere visto morire una sua creatura». Non dalla ‘prima’ al Regio, diretta da Arturo Toscanini, ma dalla rappresentazione palermitana dell’8 aprile dello stesso 1896, il pubblico non s’è stancato di piangere: ed è un secolo.


(Testo tratto da Dizionario dell’opera 2002 a cura di Piero Gelli, Baldini&Castoldi, Milano 2001)