La bohème
Scene
liriche in quattro quadri
Musica
Giacomo
Puccini (Lucca, 23 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924)
Libretto
Luigi
Illica (Castell’Arquato, 9 maggio
1857 – Piacenza, 16 dicembre 1919) e
Giuseppe Giacosa (Colleretto
Giacosa, 21 ottobre 1847 – Ivi, 1 settembre 1906), dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri
Murger
Prima
rappresentazione
Torino,
Teatro Regio, 1° febbraio 1896
Personaggi
Mimì,
soprano
Musetta,
soprano
Rodolfo,
poeta, tenore
Marcello,
pittore, baritono
Schaunard,
musicista, baritono
Colline,
filosofo, basso
Parpignol,
venditore ambulante, tenore
Benôit,
padrone di casa, basso,
Il
sergente dei doganieri, basso
Studenti,
sartine, borghesi, bottegai e bottegaie, venditori ambulanti, soldati,
camerieri da caffè, ragazzi e ragazze.
La
trama
Quadro primo
Il freddo e
Parigi sono il fondale di verità della Bohème . Tutta l’opera si svolge
nell’attesa che Parigi resti tale senza più il freddo che, da reale, si assume
presto a metafora dell’esistenza. Il dialogo iniziale tra Marcello e Rodolfo
(“Nei cieli bigi”) sottintende tutto il consueto conflitto di arte e realtà,
nella verifica del classico carmina non dant panem ; in questo dialogo
incombe il fondale: la città sotto la neve e fumante in mille comignoli, che
Rodolfo guarda dall’alto della soffitta, mentre impreca contro il non
funzionante, perché non alimentato né dalla sua né da altre arti, caminetto
(nel quale sarà da scorgere per simbolo la ricerca del quasi pascoliano nido di
quiete che percorre intera tutta la storia di Puccini come autore: la casetta
rammentata da Tosca al suo Mario, il nido profanato di Butterfly, quello invaso
dai Proci buoni di Minnie, di Frugola nel Tabarro – all’ombra
sentimentale di un’altra Parigi, dove tuttavia un venditore di canzonette cita
‘la canzone di Mimì’ – di Ping, Pang e Pong alla corte di Turandot). Anche la
stagione dell’amore, benché si sia in gioventù ( Bohème è una tragedia
della giovinezza), è fredda in questa Parigi 1830, come Marcello dice: «Ho
diacciate / le dita quasi ancora le tenessi immollate / giù in quella gran
ghiacciaia che è il cuore di Musetta» (i verbi d’esordio di Marcello erano
stati «ammollisce e assidera», qui replicati in «immollate» e «ghiacciaia», per
dire minimamente del cesello librettistico); ma ci vuol più ad alimentare un
cuore che un caminetto; Rodolfo e Marcello sono d’accordo che «L’amore è un
caminetto che sciupa troppo... e in fretta!». Il cinismo di Marcello perdurerà,
quello di Rodolfo si scioglierà presto: intanto bruciano quel che trovano
nell’esperienza loro (rapidamente l’orchestra accompagna la carta che si disfà
in cenere in un «lieto baglior» breve breve, con l’orchestra che cade appresso
dall’alto in basso; il fuoco si riprende, con l’orchestra detta dai fiati, poi
da un pizzicato d’archi, all’aggiunta di uno scartafaccio più consistente,
presto consumato anche questo; il tema rallentato dagli archi fino a morire è
il fuoco stesso che si spegne: dunque l’autore è stato di poca consistenza.
Nell’orchestra che segue il piroettare delle fiamme sarà da vedersi non
soltanto un gusto mimetico, ma il segno del particolare realismo di Puccini,
bilanciato fra impressione ed espressione). È la vigilia di Natale e questa
gioventù che brucia ha molta fame. Ed ecco all’improvviso comparire legna,
sigari e vino: Schaunard ha trovato modo di raccattare le monete mai viste
nella povertà e i vettovagliamenti sognati: ma sono destinati al futuro, non si
può stare in casa nella vigilia del giorno di festa. Parigi, a chi se
l’immagina senza esserci stato, come allora Puccini, che quando la vedrà ne
resterà deluso, è tutti i suoi monumenti, ma è soprattutto un posto non
monumentale. Parigi è il Quartiere Latino, dove si presume di mangiar bene e a
poco, che è quel che tutti cercano. E non c’è affitto da pagare che tenga: si
può ben essere cinici con un padrone di casa, Benoît, che alla sua età è un
vecchio sporcaccione; al Mabil, l’altra sera, s’è fatto cogliere in peccato
d’amore con una donna di una certa consistenza, ma giusta per lui che detesta
le magre; donde il ricatto: o rassegnarsi a che si spifferi tutto alla di lui
moglie o rinunciare all’affitto. È costretto a rinunciare con una «dolce
violenza», come recita la didascalia di Schaunard mentre sull’inizio lo
costringe a sedere. Mentre Schaunard, Colline e Marcello vanno al Quartiere
Latino, Rodolfo, che deve terminare l’articolo di fondo del ‘Castoro’, resta in
casa. Mestierante com’è pensa di sbrigarsela in fretta, scrive ma accartoccia e
getta via, accorgendosi presto di non essere in vena. Mentre sta lì, bussano
alla porta. È Mimì, la dirimpettaia, che non sa più come accendere il lume che
le si è spento, e che, in aggiunta, subito sviene, suscitando le preoccupazioni
di Rodolfo, che le offre un po’ di quel vino col quale ha da poco brindato con
gli amici, facendo ben inciuccare Benoît. «Poco, poco» dice Mimì, che già si
sente meglio, ma intanto ha perso la chiave di casa. Si mette a cercarla con
Rodolfo, che la trova e la nasconde perché vuol stare con Mimì: un po’ per il
buio, un po’ perché così gli piace, le struscia la mano e le dice com’è fredda,
corteggiandola; anzi, visto che ci si trova, le racconta in breve la sua
storia: di un poeta che vive con poco (“Che gelida manina”), in lieta povertà.
Mimì si mette sulla stessa corda e gli racconta di essere una che ricama, a cui
piacciono i fiori, che prega ma non va sempre a messa: e dice di aspettare lo
«sgelo», per inebriarsi del primo sole di aprile (“Sì, mi chiamano Mimì”).
Insomma si innamorano sotto la sigla di questo ‘sgelo’ anticipato dal cuore,
che è come il motore nascosto ma di cui si sente il rombo in Bohème (“O
soave fanciulla”). Vanno anche loro al Quartiere Latino, al caffè Momus, benché
Rodolfo abbia fatto capire, con sbrigativa e tuttavia galante esplicitezza, che
sarebbe stato meglio restare nel caldo improvviso di quella soffitta, dovuto
non solo e non proprio alle fascine procurate da Schaunard.
Quadro secondo
C’è festa e
c’è folla al Quartiere Latino, ci sono venditori e negozi; così, mentre per
conto loro gli amici vanno alla ricerca di un posto dove mangiare,
possibilmente un tavolino da Momus, Rodolfo regala a Mimì una cuffietta rosa,
che le sta così bene visto com’è bruna. Colline, intanto, s’è comprato una
zimarra rattoppata ma dignitosa. L’altra coppia di Bohème è travagliata,
più spine che rose. Marcello e Musetta, allegra donnetta, hanno litigato, ma,
suscitando e per suscitare la rabbia di Marcello, lei riappare in disinvolto
fulgore, annunciandosi con un valzerino che fa impazzire in un altro modo da
Marcello l’attuale cavalier servente (“Quando me n’vo’”). Musetta fa di cognome
Tentazione nella descrizione da rapace che ne fa Marcello, fa per vocazione «la
Rosa dei Venti» e d’ordinario si ciba di cuori. Intanto Musetta celebra le
proprie lodi, che appaiono al cavalier servente Alcindoro, nientemeno che un
consigliere di stato, un «canto scurrile»: dunque Musetta è cantante, canta
proprio nella realtà della scena, non soltanto nella scena d’opera, e come una
diva mette letteralmente ai suoi piedi Alcindoro (dice di un dolore e di un
bruciore e al «dove?» di Alcindoro, che già «si china per slacciare la scarpa a
Musetta», risponde «al pie’», «mostrando il piede con civetteria», vezzoso finale
di un monologo vanitosissimo che immette in una scena di piena coralità per dar
esito al molto corale secondo quadro dell’opera, che s’esaurisce al declinare
della vigilia del dì di festa in una malinconiosa lontananza di tamburi).
Mentre Alcindoro va a procurare un altro paio di scarpe per far star comoda
Musetta, Marcello, irresistibilmente riconquistato, se la porta via in braccio.
Il consigliere di stato riappare con un cartoccio racchiudente le calzature, in
una scena tenera e ironica, non per lui: addossandosi ruolo, costi quel che
costi, di cagnolino pronto ai piedini vezzosi della sua padrona. E, alla
presentazione del conto che gli è stato lasciato dall’allegra brigata, non sa
più cosa dire.
Terminato
questo blocco di sostanziosa unità spazio-temporale, la narrazione di Bohème
fa un salto. Per l’intanto è comunque da notare come la coerenza della
narrazione abbia udibile riscontro nello svolgimento musicale. Se alla
ricchezza melodica s’era voluta spesso contrapporre da taluni una relativa
parsimonia tematica, bisogna dire che l’oculatezza di Puccini nello sfoderare
temi su temi ha una sua propria necessità di tessitura narrativa, con riprese
ed espansioni calibrate, luminosamente procurate, costituenti la quarta
dimensione del libretto. Per dire che la riuscita di Bohème sta
nell’assoluta adeguatezza e interdipendenza di parole, situazione drammatica e
musica. Per il libretto strettamente inteso, ne va riconosciuta la notevole
consistenza drammaturgica: per quanto contrastato, il lavoro svolto da Illica e
Giacosa sotto le non flessibili direttive di Puccini è riuscito nell’impresa di
una delle opere più felici dell’intero repertorio, e il tempo ha mostrato la
consistenza di quel valore, degno della musica che lo porta. Alla quale musica,
per buona parte ma non per l’integrità dell’opera, arrise subito successo,
anche se poi il giudizio complessivo volle vedere un regresso rispetto a Manon
e al suo presunto sinfonismo. In Bohème anche la discussa questione del
nodo di naturalismo, verismo e decadentismo in Puccini è affare ingarbugliato.
Si direbbe che questa musica ‘tiene’, in senso anche, se non esclusivamente,
tecnico e retorico, a una dolcezza che diventa fatto orchestrale, ovvero
lirismo delle piccole cose di un piccolo mondo che si immagina come compiuto
universo, in sé conchiuso. Una tradizione molto italiana, da paese del
melodramma, ma non a caso trapiantata in ambiente di Francia, tra finezza e
geometria; non olî, non acquerelli: l’orchestra di Bohème colora e
contorna col pastello e talvolta con la disinvoltura di un artigiano dei
gessetti, o del carboncino; ma di quell’artigianato sa sempre fare un’arte per
intensità della mano. Come quest’arte somigli tanto a un artigianato e non lo
sia, è tutto il mistero del genio Puccini.
Quadro terzo
«La voce di
Mimì aveva una sonorità che penetrava nel cuore di Rodolfo come i rintocchi di
un’agonia», aveva scritto Murger, e nel bel collage che all’inizio del
terzo atto profila Mimì di petto a Musetta («possedeva il genio dell’eleganza
[...] non aveva che una regola, il capriccio»), s’annunciano due strade che,
portando entrambe alla femminilità, ovunque s’incontrano e ovunque divergono.
Qualche mese dopo, a febbraio, l’arte sembra essere sconfitta dalla vita alla
barriera d’Enfer. Marcello rifà l’insegna di un cabaret: il quadro che
dipingeva all’inizio ora (per le solite ragioni di lunario) ha cambiato titolo.
Annunciata da colpi di tosse, arriva Mimì: ha litigato con Rodolfo e non sa
ancora che a Parigi, dai tempi di Violetta, si muore di tisi. Nascostasi Mimì,
ecco Rodolfo, che spiega a Marcello i motivi del litigio: Mimì è una civetta,
dice, e poi, prestamente pentendosi: è tanto malata, questa è la verità, e lui
sente e sa di non poterle offrire giusto ricovero. Mimì si scopre, ma ha già
scoperto, dalle parole di Rodolfo, di dover morire. Decide di tornarsene al
«solitario nido» da dove uscì per il richiamo d’amore. Prega Rodolfo di
consegnare al portiere le poche cose che lascia: lui potrà tenersi la cuffietta
rosa per ricordo; l’addio è senza rancore, anzi è rinviato alla stagione dei
fiori, nel mese più crudele ma in cui sembra di non essere soli, ad aprile
(“Donde lieta uscì... Addio dolce svegliare”). Musetta e Marcello stanno in
un’altra puntata del loro amore litigarello: ed è quartetto.
Quadro quarto
Tempo dopo,
nella soffitta dell’inizio, Rodolfo e Marcello stanno ancora a voler credere di
fare arte. Pensano alle loro due civette (“In un coupé... O Mimì, tu più non
torni”): Mimì e Musetta stanno lontane (Mimì, pare, amoreggia con un
viscontino), restano oggetti coi quali ricordarle, come souvenir o surrogati
dell’amore che fu: per Rodolfo, la cuffietta rosa. Arrivano Schaunard e Colline
e si fa finta di banchettare col poco che c’è; poi si fa finta di divertirsi,
con danze e danze: minuetto, pavanella, fandango, quadriglia, dove Puccini cita
ironicamente il repertorio classico; ma, mentre cita e fa parodia,
improvvisamente l’orchestra si impenna in un accordo tragico: «C’è Mimì che mi
segue e che sta male», dice Musetta entrando. Accolgono la poveretta che è
tanto malata e che, abbandonato il viscontino, la sua ripicca alla gelosia,
torna per morire accanto al suo geloso Rodolfo. Fa freddo: Musetta incarica
Marcello di andare a vendere gli orecchini per comprare qualche cordiale e un
manicotto contro il freddo, per chiamare un dottore; il grande Colline, tirando
le fila del suo sistema filosofico, si vende il pastrano, la sua vecchia
zimarra, e allo scopo esce con Schaunard (“Vecchia zimarra”). Mimì, atteggiando
con la voce un’aria popolare (la forma metrica del testo è uno strambotto –
“Sono andati? Fingevo di dormire”) dice di aver finto di dormire per restare
sola col suo Rodolfo: che qui lancia il più tragicamente straziato e
appassionato dei suoi richiami d’amore, contrappasso al lirico abbandono di
quell’altra volta soli in soffitta. Insieme si danno a rammemorare i giorni
lieti di “Mi chiamano Mimì” e di “Che gelida manina”. Mimì s’era allora subito
accorta di tutto, della chiave nascosta, per esempio, ed era stata al gioco,
ingenua ma non tanto. Tossisce. Tutti si accorgono di quel che sta per
capitare, tranne Rodolfo, che non vuole cedere al destino. Sul manoscritto
della partitura è il punto in cui Puccini, che sapeva quando far morire le
donne fragili che creava, che sapeva come colpire i cuori per spillarne
lacrime, ha disegnato il teschio con le due ossa incrociate sotto, come lo
stendardo dei pirati, lui pirata del sentimento in musica. Sotto teschio e
ossa, in atto di suprema consapevolezza teatrale e non meno supremo, ma
provvisorio, cinismo, Puccini ha scritto «Mimì». In una lettera, commentando a
ridosso della fine della stesura (10 novembre 1895, l’inizio era stato nel
gennaio del ‘93), cedendo per una volta ai meccanismi del sentimento che
dominava da maestro, almeno come le sue note, scrisse dell’ «effetto di avere
visto morire una sua creatura». Non dalla ‘prima’ al Regio, diretta da Arturo
Toscanini, ma dalla rappresentazione palermitana dell’8 aprile dello stesso
1896, il pubblico non s’è stancato di piangere: ed è un secolo.
(Testo
tratto da Dizionario dell’opera 2002 a cura di Piero Gelli, Baldini&Castoldi,
Milano 2001)