Dal 1° al 23 maggio
il capolavoro di Puccini con il finale scritto da Luciano Berio segna l’esordio
di Riccardo Chailly alla guida dei complessi musicali del Teatro alla Scala.La
regia è di Nikolaus Lehnhoff, nei ruoli principali cantano Nina Stemme, leksandrs
Antonenko e Maria Agresta; diretta su Rai5 e Radio3, differita nei cinema il 21
maggio
Il 1° maggio Riccardo Chailly esordisce sul podio del Teatro alla
Scala in veste di Direttore Principale dirigendo Turandot di Giacomo Puccini in occasione dell’inaugurazione di Expo
Milano 2015.
Nina Stemme è Turandot, Aleksandrs Antonenko il principe Calaf,
Maria Agresta Liù, Alexander
Tsymbalyuk Timur.
Il finale scelto per l’opera incompiuta di Puccini è quello di Luciano Berio, che viene eseguito per la prima volta in forma scenica alla Scala. Berio lo compose nel 2001 riprendendo per la prima volta 23 dei complessivi 30 schizzi lasciati da Puccini; la prima assoluta fu diretta da Riccardo Chailly nel 2002 al Festival delle Canarie.
Il finale scelto per l’opera incompiuta di Puccini è quello di Luciano Berio, che viene eseguito per la prima volta in forma scenica alla Scala. Berio lo compose nel 2001 riprendendo per la prima volta 23 dei complessivi 30 schizzi lasciati da Puccini; la prima assoluta fu diretta da Riccardo Chailly nel 2002 al Festival delle Canarie.
Turandot sarà
ripresa dalle telecamere della Rai e trasmessa in diretta televisiva su
Rai5 e radiofonica su Radio3 oltre che in differita nei cinema il 21 maggio. La
diretta televisiva raggiungerà il carcere di San Vittore in collaborazione con
il Comune di Milano e l’Associazione Quartieri Tranquilli.
Turandot inaugura
la programmazione scaligera per Expo: sei mesi in cui il teatro sarà aperto per
122 serate d’opera, 62 di balletto e 90 concerti. Già il 2 maggio i Berliner
Philharmoniker inaugureranno il Festival delle Orchestre Internazionali per
Expo, che durerà fino al 27 ottobre, e dal 16 maggio andrà in scena CO2, l’opera sul cambiamento climatico
commissionata dal Teatro alla Scala a Giorgio Battistelli.
L’opera
I dubbi di Puccini e il finale di Alfano per
l’opera degli enigmi
Giacomo Puccini muore a Bruxelles il 29 novembre 1924, lasciando
incompiuta la sua ultima opera, Turandot,
segnata da uno sforzo di rinnovamento stilistico che pone l’autore accanto ai principali
compositori europei del suo tempo. Nel dicembre 1923, la partitura sembra quasi
finita: compiuta la scena tragica della morte di Liù, manca solo il duetto
finale in cui la principessa si abbandona finalmente all’amore. Ma il passaggio
dal lutto per Liù allo “sgelamento” della principessa, all’ardore amoroso di
Calaf e a un rapido lieto fine si rivela uno scoglio estremamente arduo dal
punto di vista drammaturgico e musicale. Puccini, colpito da un tumore alla
gola, continua a scrivere producendo 23 fogli che contengono 30 frammenti
musicali. Ci lavora fino all’ultimo, portandoli con sé anche a Bruxelles dove
si reca per un ultimo consulto medico. Dopo la morte del Maestro, l’editore
Ricordi decide, su pressione di Arturo Toscanini, di affidare il completamento
dell’opera sulla base delle bozze disponibili a Franco Alfano, già autore dell’opera
di ambientazione orientale Sakuntala.
Toscanini tuttavia non è per nulla soddisfatto della prima versione del finale
propostagli da Alfano in cui sono ripresi, insieme a diversi temi degli atti
precedenti, solo 3 dei frammenti di Puccini e gli impone di scriverne una
seconda, più stringata, in cui i frammenti pucciniani diventano 4. La prima
rappresentazione di Turandot ha luogo
al Teatro alla Scala il 25 aprile 1926. Dirige Arturo Toscanini che, dopo la
morte di Liù, depone la bacchetta e rivolge al pubblico la frase “Qui termina
la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto”. Da allora il secondo finale di Alfano è
rimasto in repertorio, ma senza convincere del tutto per i limiti di scrittura
dovuti anche alla rapidità di realizzazione, ma soprattutto perché il tono
trionfale della nuova conclusione contrasta con le parole vergate dal
compositore negli schizzi: “e poi Tristano”. Il Tristano e Isotta di Wagner, costantemente presente in una
partitura che appartiene a un orizzonte stilistico nuovo rispetto alla
produzione precedente di Puccini, si conclude in pianissimo, con un’estasi
amorosa che è anche estasi di morte: tutto il contrario del coro trionfante cui
Alfano fa cantare le parole (assenti dal libretto originale) “ride e canta l’infinita
nostra felicità”. Un’indicazione preziosa sulle intenzioni di Puccini viene dal
critico musicale Leonardo Pinzauti che in una lettera a Luciano Berio riporta
la testimonianza di Salvatore Orlando, proveniente da una famiglia di armatori
livornesi amici del compositore. Il giovane Orlando frequentava la villa di
Puccini a Torre del Lago e ricorda che nel 1923 il Maestro gli fece ascoltare
l’ultima scena al pianoforte spiegandogli che si trattava di un finale “come
quello di Tristano”. Le ultime battute
erano pianissimo.
Il finale
di Luciano Berio
Nel 2000 il Festival delle Canarie commissiona un nuovo
completamento dell’opera a Luciano Berio. Berio si dedica innanzitutto allo
studio dei frammenti originali e opera una serie di tagli al libretto
eliminando molti dei passaggi per cui non esistono idee musicali di Puccini. A
differenza di Alfano, Berio si ripropone di utilizzare il più possibile gli
schizzi, inclusi quelli strumentali in cui Puccini sembra discostarsi in modo
radicale dal suo stile precedente, e ne inserisce 23 su 30 (delle complessive
307 battute del finale 133 sono di mano di Puccini, 174 di mano di Berio) combinandoli con una serie di rimandi a temi
già presenti nel resto dell’opera, a cominciare dal “Nessun dorma” utilizzato
anche da Alfano. Si accentua così nel finale il pluralismo di stili che è
caratteristica dell’intera opera e ne fa un punto di svolta rispetto alla
precedente produzione pucciniana. Per il punto culminante, lo “sgelamento”,
Berio si rifà alle indicazioni di Puccini: “Nel duetto si può arrivare a un
pathos grande. E per giungere a questo io dico che Calaf deve baciare Turandot
e mostrare il suo amore alla fredda donna. Dopo baciata con un bacio che dura
qualche secondo (…) le dice il suo nome
sulla bocca” (lettera a Adami, novembre 1921). Si rende necessario un
momento di “intimità amorosa” abbastanza prolungato da rendere drammaticamente
credibile il cedimento della principessa: Berio lo realizza con un interludio
strumentale apertamente debitore del cromatismo di Wagner, cui già aveva fatto
riferimento Puccini prima dell’aria di Liù (è interessante osservare come anche
Alfano nella prima versione del suo finale avesse proposto un interludio in
questo punto). L’accordo del Tristano ricorre
in diversi momenti dell’opera, a cominciare delle prime note del I atto,
gettando un’ombra di ambiguità e di morte sulla vicenda amorosa. Nel finale di
Berio il lutto per la morte di Liù non è dimenticato e termina in pianissimo su
un’atmosfera di sospensione e incertezza: “si conclude con una domanda –
dichiarava Berio – e il pubblico si ritrova a chiedersi che cosa ha visto e
come sia possibile completare in qualche modo la soluzione dell’enigma che è Turandot”. Il risultato è una pagina in
cui Berio non finge di essere Puccini ma restituisce all’ascoltatore quasi
tutta la musica effettivamente scritta dal compositore, le sue intenzioni
estetiche e drammaturgiche e anche la problematicità di un’opera che, terminata
nel 1924, riflette a pieno titolo le tensioni e le aperture del ‘900 musicale.
Lo spettacolo
Il
finale di Berio vede la luce in forma di concerto il 25 gennaio 2002 al
Festival de Gran Canaria, con il Concertgebouw diretto da Riccardo Chailly. Il
1° giugno il nuovo finale viene presentato in forma scenica alla Nederlandse
Opera, sempre con Chailly e il Concertgebouw e la regia di Nikolaus Lehnhoff. Luciano Berio è presente, segue le prove:
insieme a lui Lehnhoff decide di lasciare in scena il corpo di Liù durante il
duetto dello “sgelamento”, come un’ombra luttuosa che si stende sull’estasi
degli amanti. L’allestimento di Lehnhoff resta quello preferito da Berio, che
sarebbe scomparso nel maggio 2003, e giunge ora alla Scala in una nuova
produzione ripensata dal regista.
Nella parte di Turandot
torna alla Scala il soprano svedese Nina
Stemme, una delle grandi voci wagneriane del nostro tempo che ha già
affrontato diversi ruoli pucciniani, incluso questo a Stoccolma nel 2013. Nina
Stemme è stata ascoltata al Piermarini in un recital e nel Gala per Plácido
Domingo diretto da Daniel Barenboim nel 2009 e, sempre con Barenboim, come Brünnhilde
in Die Walküre il 7 dicembre 2010 e
in Siegfried nel 2012 oltre che nel Fidelio in forma di concerto diretto da
Franz Welser-Möst nel 2010.
Il
principe Calaf è Aleksandrs Antonenko,
tenore lettone affermatosi in ruoli come Otello, che ha cantato con Riccardo
Muti al Festival di Salisburgo nel 2008 e a Chicago nel 2013, Samson, Radamès e
Dick Johnson. Alla Scala è stato Cavaradossi in Tosca nel 2011 con Omer Meir Wellber e nel 2012 con Nicola
Luisotti, e Ismaele in Nabucco ancora
con Luisotti nel 2013.
Maria Agresta canta la parte di Liù. Il
suo debutto nella sala del Piermarini avviene nelle vesti di Elvira nel Don Giovanni diretto da Barenboim nel
2011: seguono La bohème con Daniele
Rustioni nel 2012, Requiem di Verdi a
Berlino con Barenboim e Oberto conte di
San Bonifacio con Frizza nel 2013 e Il
trovatore con Daniele Rustioni nel 2014.
In
occasione delle celebrazioni dei suoi novant’anni (1925-2015) l’Istituto della
Enciclopedia Italiana prosegue la sua attività al servizio della cultura
italiana. Per l’inaugurazione dell’Expo di Milano 2015 l’Istituto ha inteso
rinnovare il proprio impegno per la ricerca e la valorizzazione di
testimonianze storiche, realizzando, per signorile cortesia dell’Archivio
Storico Ricordi, una riproduzione in facsimile del libretto originale
dell’opera Turandot di Giacomo Puccini, su versi di Giuseppe Adami e
Renato Simoni, per la prima assoluta al Teatro alla Scala del 25 aprile 1926.
Il libretto verrà consegnato agli spettatori insieme al programma di sala.
(Comunicato
stampa)