Guida
all’ascolto del capolavoro di Rossini a cura di Marco Faelli (©Teatro Lirico di
Cagliari)
(Foto: fondazionerossini.com) |
Il 13 marzo del 1864, in un salone del
palazzo della Contessa Louise Pillet Will, a Parigi, viene presentata, a uno
scelto pubblico di invitati, la
Petite Messe solennelle. La composizione non è
destinata a un uso liturgico (il pianoforte non è adatto all’acustica di una
chiesa), ma a un ambiente più intimo, domestico. L’organico è quindi essenziale
(da qui l’aggettivo Petite, mentre Solennelle indica che tutto il testo è
musicato, compreso il Credo).
Scrive Rossini nella partitura autografa: «Douze
chanteurs de trois sexes Hommes, Femme et Castres seront suffisants pour sono
execution, savoir huit pour les choeurs, quatre pour les solos, total Douze
Cherubins»; a questi si aggiungeva il sostegno strumentale di due pianoforti e
di un harmonium.
Nonostante il desiderio di Rossini
(sappiamo quanto rimpiangesse la ormai inevitabile scomparsa dei castrati), il
“terzo sesso” non prese parte all’esecuzione: i ruoli femminili vennero infatti
sostenuti dalle sorelle Barbara e Carlotta Marchisio, mentre quello del tenore da
Italo Gardoni (primo interprete, tra l’altro, dei Masnadieri di Verdi), e il basso Louis Agniez. Il coro era
costituito da studenti del Conservatorio di Parigi, scelti personalmente da
Auber, e diretti (alle spalle dei solisti e con tanto di bacchetta) dal maestro
Choen. Per la cronaca, al primo pianoforte sedeva un allievo di Chopin, Georges
Mathias.
La primitiva versione della Petite Messe venne eseguita solo tre
volte durante la vita dell’autore: dopo la sua morte entrò in circolazione una
versione orchestrale (in cui le parti solistiche e quelle corali rimangono
identiche), strumentata dall’autore stesso, anche se malvolentieri. In questa veste
venne eseguita, con un grande organico corale, al Théatre des Italiens di
Parigi, il 24 febbraio 1869, ed entrò rapidamente in circolazione, con repliche
a Bologna (sotto la direzione dell’allievo di Verdi, Muzio), a Torino, alla
Scala, in Svizzera, Francia, Russia, Germania, e perfino in Australia!
Considerata un capolavoro di musica sacra, nel 1874 costituisce il metro di
confronto per la prima grande composizione sacra di Verdi, il Requiem.
Nonostante l’organico
“ipercameristico” della prima versione (dovuto, in parte, anche a ragioni
acustiche), la scrittura dei cori non presenta atteggiamenti solistici di
stampo neomadrigalistico, ma assume caratteristiche squisitamente “corali”,
come risulta evidente dalla struttura delle fughe, dagli interventi di stampo
operistico del Credo, dagli impasti
fonici del Sanctus (lo stesso Rossini
parla di “Choeurs”). È quindi legittimo considerare la Petite
Messe uno dei più grandi capolavori corali della musica
sacra, che ogni direttore di coro deve possedere nel proprio repertorio.
Affrontare la Petite
Messe solennelle
dal punto di vista interpretativo significa, innanzitutto, confrontarsi con i
problemi determinati dall’eterogeneità e dall’ambiguità di fondo che la
contraddistinguono: infatti, come si può cogliere da un’analisi globale,
l’intera composizione oscilla tra momenti assai contrastanti per stile, tecnica
costruttiva e carattere espressivo.
Quando ci si pone di fronte a un testo
che presenta una consistente disomogeneità e si propende per una lettura di tipo
sintetico, che cioè da un’idea generale dell’opera tragga un’unica prospettiva
interpretativa, si rischia di interpretare il testo in modo un po’ troppo
settoriale, valorizzando estremamente alcuni spunti e trascurandone altri:
alcune esecuzioni del capolavoro rossiniano, pur pregevolmente realizzate, ma
non pienamente soddisfacenti, hanno probabilmente alla base una lettura
eccessivamente sintetica, che riconduce, in modo un po’ forzato, l’eterogeneità
a un’unica chiave di lettura. La Petite
Messe è proprio un emblematico esempio di opera
che richiede una lettura assolutamente analitica, dove l’interpretazione non
sia intuita “a priori”, ma derivi “empiricamente” e in modo induttivo dalla
messa a fuoco delle singole componenti.
Esaminando sommariamente le varie
sezioni della Messa, possiamo schematizzane le caratteristiche strutturali ed
espressive in questo modo:
Kyrie eleison
1° Kyrie: Struttura
binaria, andamento di lied corale con
canone nella parte iniziale, accompagnamento ritmico ostinato, carattere
espressivo enigmatico, interesse armonico.
Christe: Struttura
polifonica classica imitata “a cappella”, con due spunti tematici doppi e uno
semplice; dolcissimo, immateriale.
2° Kyrie: vedi 1° Kyrie, più piccola elaborazione.
Gloria
Introduzione: Formule
operistiche.
Laudamus
Te:
Sezione bipartita affidata al quartetto solistico, su movimento armonico
ostinato (prima parte omoritmica, seconda parte imitata); clima dimesso e
devoto, quasi un “presepio”.
Gratis
agimus:
Terzetto solistico con struttura A1 A2 A3 A4, interesse prevalentemente
melodico; lirico e fluente.
Domine
Deus:
Tipica aria operistica tenorile di stampo eroico, con impianto ternario e
sezione centrale elaborata.
Qui
tollis:
Duetto soprano-contralto; struttura ABA’C, accompagnamento arpeggiato,
prevalente andamento delle voci per terze, melodia ampia, mesta, solenne.
Quoniam: Aria
solistica del basso, piuttosto vicina a formule d’opera comica. Struttura ABCD
B’BCD B’B; accompagnamento vivacemente ritmico; solenne, decisa, affermativa.
Cum
Sancto Spiritu: Fuga corale a tre spunti tematici. Struttura:
esposizione, 1° divertimento, soggetto al IV grado, 2° divertimento con lungo
passo accordale, stretto, 3° divertimento, coda. Impianto polifonico
settecentesco, carattere estremamente festoso.
Credo
Credo: Coro e
solisti; struttura A B1 B2 / A B1 B2 / A B1 B2 C / A B1*. Accostamento di
sezioni di tematica contrastante; ritmo vivace, effetto monumentale, momenti di
grande tenerezza.
Crucifixus: Aria
solistica del soprano su accompagnamento uniforme e con utilizzo di pochissimi
e semplici spunti tematici; interesse armonico, espressività dimessa e dolente.
Et
resurrexit: Struttura: A’ B1* B2 D C B1* / B1* B2 A D C A.
Accentuazione del carattere grandioso rispetto alla prima parte del Credo.
Et
vitam:
Fuga corale di impianto tradizionale a tre spunti tematici (esposizione, 1°
divertimento, risposta al IV grado, 2° divertimento con pedale di dominante,
stretti, 3° divertimento, coda); serena e festosa.
Preludio religioso: pagina
pianistica di carattere colloquiale, di struttura A1 A2 B, con interessante
contrappunto.
Sanctus: brano “a
cappella” per coro e solisti. Struttura ABCD BCDD, con sezioni ora accordali,
ora imitate, ora melodiche; dolce, intimo, pastorale.
O salutaris: Aria
solistica e di prevalente interesse melodico, affidata al soprano; struttura:
ABC ADB’C’D’; carattere sereno e luminoso.
Agnus Dei: Aria
tripartita del contralto su accompagnamento di semicrome ribattute, con
interventi corali “a cappella”; grandissimo effetto drammatico e teatrale.
Nel “progetto esecutivo” di una pagina
che preveda un largo impiego del coro, il primo problema da risolvere riguarda
i valori da assegnare al parametro timbrico: mentre una composizione
strumentale ha caratteristiche timbriche piuttosto definite e si possono
ottenere colori diversi solo giocando con gli equilibri dinamici dei piani
sonori, un brano corale presenta una gamma di possibilità ben superiore. La
voce umana, infatti, ha la capacità di esprimersi in un’infinità di gradazioni
timbriche, piuttosto sottili e difficili da definire: si può dire che quasi il
cinquanta per cento del “messaggio estetico” di una composizione corale viene
prodotto dagli aspetti fonici, dal colore del coro e dalle sue molteplici
sfumature. Compito fondamentale del direttore di coro è proprio la cura della
vocalità, intesa come mezzo per ottenere quelle timbrature, quei valori
cromatici senza i quali un coro non esprime che una piccola parte delle sue
potenzialità.
La ricerca della giusta dimensione
fonica non è per nulla facile, in quanto, tra tutti i parametri musicali, il
timbro è sicuramente il più indefinito: per il maestro di coro assume quindi importanza
fondamentale la capacità di percezione interna del dato sonoro (il cosiddetto
“orecchio interno”), che dà la possibilità di avere un riferimento chiaro e
sicuro con cui confrontare l’ascolto diretto in sede di prova.
Nel caso della Petite Messe ogni brano, per le sue caratteristiche formali, ha la
necessità di essere contraddistinto da una ricerca timbrica particolare,
nell’ambito di una tendenza generale alle sonorità “chiare”, trasparenti. Se il
coro che affronta questa composizione è specializzato nel settore
lirico-sinfonico (è il caso di quasi tutti i cori professionali italiani), non
è facile ottenere immediatamente la necessaria adesione stilistica: mentre
nelle produzioni liriche, infatti, si richiedono forte presenza sonora, colore
scuro e caldo, timbratura rilevante, vibrato, nel genere cameristico si
preferiscono tinte diverse, molto più sfumate e tenui, realizzate attraverso
un’emissione più leggera, che sfrutta meno le risonanze pettorali e più quelle
“di testa.
Quando poi, come nel caso della Petite Messe, si incontrano sezioni
riconducibili alla polifonia classica o al genere fugato, una particolare
emissione è richiesta non solo dalla necessità di aderire allo stile (concetto,
come si è già detto, un po’ ambiguo), ma ancor più dall’esigenza di ottenere,
attraverso una timbratura asciutta ed essenziale, la necessaria trasparenza
delle parti. Non dimentichiamo, poi, che in alcuni brani sonorità e colori
dovranno allontanarsi in qualche misura dall’ambito strettamente cameristico,
in quanto si tratta di veri e propri momenti operistici (il Credo, ad esempio). Questo comporta,
quindi, l’esigenza per il
coro, di utilizzare, nella stessa composizione, sistemi di emissione piuttosto
diversi.
L’atmosfera non ben definita del Kyrie viene rotta dalla proclamazione
del Gloria, quanto mai perentorio ed
estroverso, a cui non si dovrà aver timore di conferire forza e grandiosità. Ma
questa “apertura dei cieli” ci viene offerta per un attimo soltanto, e
l’attenzione ritorna all’uomo (et in
terra pax hominibus), con un delizioso quadretto natalizio, sereno ma
dimesso nella sua profonda devozione: la staticità armonica che lo
contraddistingue contribuisce a creare quell’idea di immobilità che fa pensare
alla statuarietà e alla semplicità della scena di un presepio. Semplicità quasi
francescana è la cifra interpretativa di questo passo.
Molto più deciso il terzetto che
segue, chiaramente lirico e fluente, a tratti solenne, nella proclamazione: Propter magnam gloriam tuam! Il tema
della gloria viene ripreso senza reticenza nella celebre (e assai impegnativa)
pagina del tenore solo (Domine Deus),
in cui la regalità guerriera del Dio degli eserciti che celebrano i salmi si stempera
in un clima di familiare dolcezza ogni qual volta viene nominato il Figlio
unigenito. Questo contrasto, se viene sottolineato con convinzione, rende la
pagina uno dei momenti più felici ed efficaci della Messa. Da un canto
energico, articolato, eroico si dovrà quindi cedere a un’espressione lirica,
intima, con fraseggio legato e sonorità più tenui, per prorompere finalmente
nella grandiosa invocazione conclusiva, che si può definire (intendendo il
termine nella sua accezione migliore) decisamente trionfalistica.
Il duetto seguente (Qui tollis peccata mundi), dolce ma
teneramente mesto, immobile nella fissità delle forme di accompagnamento, non
può non far pensare alla statica situazione dell’uomo, oppresso dal peso della
colpa: a tratti (battuta 383 e segg.) l’invocazione tende a diventare
drammatica come in alcuni passi del Kyrie,
ma il clima di fondo è comunque fiducioso e sereno, e si risolve nella sezione
di chiusa, in cui l’approdo alla tonalità maggiore esprime sicurezza e
stabilità. Il clima trionfalistico già incontrato nell’aria del tenore viene
ripreso in quella del basso (Quondam Tu
solus Sanctus), composto con formule piuttosto vicine agli stilemi
dell’opera buffa. È interessante osservare (e forse non è un caso) che alla
fine dell’aria la
proclamazione Tu solus Altissimus, Jesu Christe si
ripete per tre volte, come per tre volte si ripete la professione di Pietro a
Cesarea. Il carattere immediato e la forte carica emotiva di quest’aria sono,
in effetti, quanto mai vicine proprio all’immagine psicologica che i sinottici
danno della fede del primo degli Apostoli.
Il Gloria
si chiude, quindi, con una fuga stupenda (e assai difficile tecnicamente), con
tre elementi tematici e impianto prevalentemente tradizionale, ma con un lungo
passo accordale cromatico e modulante, tipico invece delle fughe di epoca
romantica, che offre un efficace momento di contrasto.
Il carattere della fuga è festoso,
vivissimo, in alcuni momenti quasi frenetico, soprattutto grazie al ritmo
mobilissimo e alle agilità ai limiti delle possibilità esecutive di un coro,
che si alternano in tutte le parti, e soprattutto nel rigo dei soprani. Questo
clima di esaltazione, che nel finale diviene addirittura travolgente, è calato
in una costruzione architettonica grandiosa per proporzioni e per respiro, e
che si colloca al centro ideale di tutta la Messa. È difficile riuscire a
realizzare in modo convincente questa fuga, oltre che per le rilevanti
difficoltà tecniche, principalmente per
il suo carattere ibrido: da una parte l’autore opta per una
costruzione formale elegante e misurata, dall’altra vi introduce spinte emotive
assai forti, che possono rischiare di turbare la compostezza dell’insieme. E,
in effetti, gran parte della Petite Messe
oscilla fra la volontà di ripristinare moduli classici, valorizzando il
discorso formale, e l’esigenza di dare spazio all’emotività (sia essa intesa in
senso sentimentale e intimistico, o entusiastico e grandioso, o prepotentemente
drammatico). In questi casi, è difficile per l’interprete trovare un giusto
equilibrio tra valori formali ed emotivi: in un testo che ha valenze
contrastanti si è infatti portati ad accentuare gli aspetti a noi più
congeniali e a perdere un po’ di vista gli altri.
D’altra parte, è pur vero che la
settorialità di prospettiva è, in qualche modo, indice del valore di
un’interpretazione, e consente di cogliere la personalità dell’interprete: non
esiste un unico modo “corretto” di leggere un testo, e anche gli stessi
fraintendimenti possono rivelare una propria suggestione. L’essenziale è che il
testo stimoli nell’interprete risposte che dipendono, comunque, dalla sua
situazione soggettiva e che, in un certo senso, sono tutte corrette e tutte
discutibili; l’ascoltatore, a sua volta, reagirà a quanto l’interprete ha
rielaborato sulla base delle proprie capacità di percezione e del proprio stato
emotivo. Queste dinamiche interpersonali sono, in ultima analisi, il senso
dell’esecuzione musicale, che acquista così aspetti ogni volta nuovi e
imprevedibili e che dovrebbe rappresentare, per l’ascoltatore, un’occasione di
introspezione più che un momento di freddo giudizio critico.
Imponente costruzione è pure il Credo, realizzata, però, con semplicità
di linee ed economia di materiali: tutta la struttura, infatti, è ottenuta
impiegando quattro diversi segmenti, che si alternano in vario ordine, ed
introducendo periodicamente la
formula Credo ,
proclamata con vigore da tutto il coro, utilizzato qui come un solido pilastro
strutturale. La chiarezza concettuale (essenziale in ogni professione di fede)
prevale giustamente sulla complessità della costruzione formale; notevole è,
comunque, lo spazio concesso al lirismo e alla poesia intima, delicatissima
(pensiamo al momento in cui il quartetto solistico, sottovoce e con emozione,
ricorda il mistero dell’incarnazione di Cristo [“Et incarnatus est”, battuta 108]).
E di grande dolcezza, mesta e
rassegnata, è l’inserto solistico del soprano (Crucifixus), pacatamente doloroso, che si chiude con il riferimento
alla sepoltura (et sepultus est)
quasi con una dissoluzione della musica e del canto, come se, con la morte di
Cristo, nulla avesse più senso. Qui il soprano dovrà rinunciare a ogni
tentazione di effetto vocalistico, quasi all’espressione stessa, lasciando
scorrere il canto in un’atteggiamento inerte, rassegnato, privo di qualunque
slancio. Ancora più efficace risulterà quindi la vera e propria esplosione
sonora che annuncia la Resurrezione: da qui infatti il discorso corale riprende
e si sviluppa con entusiasmo crescente e rinnovato vigore.
Il Credo
termina con una seconda fuga, di dimensioni inferiori, ma piuttosto simile alla
prima, questa pure con tre spunti tematici (non facili da far risaltare
nell’intreccio delle voci), ma di carattere più sereno e composto, con una
“coda” che si snoda in melismi sovrapposti e che propone anch’essa, alla fine,
formule cadenzali di stampo decisamente operistico.
Un momento di alleggerimento,
preceduto da una breve drammatica introduzione, è affidato al pianoforte solo
(o all’harmonium, ad libitum): è un commento colloquiale,
sapientemente contrappuntato, in bilico tra intimismo romantico e scienza
costruttiva bachiana, che si colloca all’Offertorio che, nella Petite Messe, non prevede l’impiego
delle voci. Tipico del gusto musicale liturgico ottocentesco è, in effetti, il
sottofondo strumentale nei momenti fondamentali della celebrazione, realizzato
con l’organo o con l’harmonium.
Questo strumento, assai diffuso nella musica liturgica del secondo Ottocento,
ha un particolare timbro sentimentale e un carattere meno grandioso
dell’organo, più semplice, più quotidiano: molto significativo quindi il suo
impiego nella Petite Messe, dove
Rossini sembra spesso cercare un rapporto semplice, quasi cordiale con il “Buon
Dio” (ricordiamo che questo capolavoro venne concepito non per l’uso liturgico,
ma per una più intima destinazione familiare).
Nel Sanctus il coro, qui senza sostegno strumentale, propone una pagina
dolcissime e allo stesso tempo intensa. Nessun trionfalismo: prevale piuttosto
un andamento ternario di pastorale, carezzevole e sinuoso, morbidamente
sussurrato in una ricerca timbrica che punterà sulla morbidezza e sulla
rotondità, mentre il fraseggio dovrà essere particolarmente legato e fluente, e
l’espressione densa di misticismo.
Al Sanctus
segue quello che viene spontaneo definire il “largo alla Comunione” (O salutaris Hostia), che rappresenta il
momento di maggiore apertura lirica della Petite
Messe, dove il canto del soprano si espande con eleganza snodandosi in
belle progressioni, che ora si slanciano verso l’altro, ora si riavvolgono su
loro stesse. È una pagina serena, di grande freschezza, luminosa e solare dove
l’interprete può esprimere liberamente le proprie doti vocali.
La Messa si chiude con l’Agnus Dei, un brano di altissimo valore,
ricchissimo di significati espressivi, oscillante tra la dolcezza triste e
commossa e la drammaticità più cupa e intensa (di matrice operistica), alla
triplice invocazione del contralto (Miserere
nobis!) fa seguito un delicatissimo richiamo corale alla pace.
L’accompagnamento in semicrome ribattute conferisce un carattere ansioso a
tutto l’Agnus Dei, che chiude con un
effetto di grande potenza una composizione che, per l’importanza della
componente sentimentale e per la sapiente architettura, si presta perfettamente
a tradurre in termini musicali la religiosità cattolica dell’Ottocento.
Marco Faelli, laureato
in Fisica teorica all’Università degli Studi di Parma, dopo gli studi di Composizione
con Bruno Bettinelli, si è diplomato in Direzione d’orchestra al Conservatorio
di Musica “Giuseppe Verdi” di Milano con Gabriele Bellini, perfezionandosi, in
seguito, all’Accademia “Ottorino Respighi” di Roma con Ferenc Nagy e Hans Priem
Bergrath, e, quindi, alla Fondazione I Pomeriggi Musicali con Gianluigi
Gelmetti. Ha, inoltre, seguito, per un certo periodo, l’attività di Peter Maag,
uno dei principali punti di riferimento (assieme ad Aldo Ceccato) per la sua
formazione di interprete. Ha iniziato l’attività artistica nel 1975 al Teatro
Regio di Parma come Maestro sostituto. Dal 1980 al 1986 è stato prima
“Assistente alla Direzione del Coro” e poi “Altro Maestro del Coro” al Teatro
alla Scala di Milano, dove ha collaborato con Romano Gandolfi (di cui è stato
allievo) e Giulio Bertola. Sempre al Teatro alla Scala è stato anche Direttore
del Coro di voci bianche dal 1980 al 1986. È stato Maestro del Coro del Teatro
Carlo Felice di Genova (1986-1988), del Teatro Regio di Parma (1989-2002),
della Fondazione “Arturo Toscanini” di Parma (1996-2006), dell’Arena di Verona
(2002-2010). Ha anche svolto attività di Direttore del Coro dei complessi di
Radio France e della Radiotelevisione spagnola. Come Direttore del Coro ha al
suo attivo molte registrazioni discografiche tra cui, in occasione del
centenario verdiano, Messa da Requiem
ed Il Trovatore. Ha esordito come
Direttore d’orchestra al Teatro Carlo Felice di Genova, e ha poi diretto opere
liriche e concerti sinfonici in Italia e all’estero, specializzandosi
soprattutto nel settore sinfonico-corale. Il suo repertorio comprende, tra
l’altro: Messa da Requiem di Verdi; Requiem, Grande Messa in do minore, Davidde penitente, Vesperae
solemnes de confessore, Krönungsmesse
di Mozart; Christus am Ölberge, Nona Sinfonia e Fantasia per pianoforte, coro, orchestra di Beethoven; Weihnachtsoratorium, Passione secondo Giovanni, Magnificat, Messe e cantate di Bach; Dettingen
Te Deum, Utrecht Te Deum, Dixit Dominus, Messiah, Israele in Egitto di
Haendel; Oratorio di Natale di
Telemann; Die Schöpfung, Theresienmesse, Missa Sancti Nicolai di Haydn; Oratorio
di Pasqua di Buxtehude; Te Deum
di Charpentier; oratori di Carissimi;
Rappresentatione di Anima et di Corpo di
Emilio de’ Cavalieri; Sacrae Symphoniae
di Giovanni Gabrieli; Te Deum, Dies Irae, Alcidiane et Polexandre di Lully; cantate, Anthems di
Purcell; Gloria, Credo, Magnificat, Dixit Dominus, Lauda Jerusalem, Stabat
Mater di Vivaldi; Stabat Mater di
Pergolesi; Historia der Geburt Christi,
Historia der Auferstehung di Schütz; Hofkapelmeistermesse di Salieri; Stabat Mater, Petite Messe solennelle di Rossini; Oratorio di Natale di Saint-Saens; Stabat Mater di Poulenc, Carmina
Burana, Catulli Carmina di Orff; Les Noces, Messa, Sinfonia di Salmi di
Stravinskij. Con i complessi da lui fondati, il “Collegium Farnesianum”
(orchestra barocca con strumenti originali), il “Coro Cameristico Maria Luigia”
e il “Coro Filarmonico di Parma”, si è dedicato anche alla musica antica,
curando la ricerca, la trascrizione e la riproposta di numerose opere inedite,
con speciale attenzione ai criteri esecutivi filologici. È anche Direttore
artistico della rassegna di musica barocca “Incontri Musicali Farnesiani”, che
si svolge a Parma dal 1997, e di cui è fondatore. Per questa rassegna ha proposto,
in prima esecuzione, numerosi inediti, di cui ha curato la trascrizione, in
particolare legati alla tradizione musicale delle diverse corti che hanno retto
il ducato di Parma: dai Farnese, ai Borbone, fino a Maria Luigia d’Austria. Ha svolto intensa attività saggistica in campo
musicologico, e, in collaborazione con Romano Gandolfi, ha pubblicato un saggio
sulla direzione corale (“Magia del coro”). In via di pubblicazione “Studi
antichi e declamazione moderna” (ampio trattato sulla prassi esecutiva originale
del melodramma verdiano, di cui si sta occupando da alcuni anni) e un testo di
“Acustica musicale”. Attualmente sta lavorando a “1813-1901, il secolo di
Verdi” (panoramica sugli eventi storici e culturali contemporanei al percorso
personale e compositivo del Maestro), e a “Linguaggio o fenomeno? - colloquio
tra musica ed epistemologia”. Parallelamente ha intrapreso intensa attività di
pianista accompagnatore e di docente di “Interpretazione dello spartito
lirico”, collaborando con il
Centro di Perfezionamento per artisti lirici del Teatro alla
Scala, con l’Accademia Lirica e Corale “Città di Osimo”, con la Showa University
di Tokyo (dove ha anche tenuto lezioni di direzione d’orchestra e di
esercitazioni orchestrali). È stato anche docente dei Corsi di formazione della
Fondazione Toscanini e ha insegnato, nei conservatori di Parma e Mantova e
negli Istituti di Alta Formazione “Achille Peri” di Reggio Emilia e “Orazio
Vecchi” di Modena, materie quali: Esercitazioni orchestrali; Esercitazioni
corali; Coro di voci bianche; Lettura della partitura; Teoria e solfeggio;
Pratica di lettura vocale e pianistica; Acustica e psicoacustica;
Approfondimenti di Teoria musicale; Semiografia della musica; Direzione di
Coro. Da giugno a dicembre 2012 è stato Consulente artistico del Teatro Lirico
di Cagliari.