Costantino Palumbo
Costantino Palumbo fu un eccellente pianista, dalla distinta e netta personalità di strumentista e interprete. Punta avanzata, con Cesi e Martucci, del rettificarsi d’un gusto corrotto che spaccava in due la musica: ‘italiana’ o del melodramma, e ‘tedesca’, di tutto il resto.
Nell’ottocento musicale napoletano la forza di propulsione del suo talento fu determinante, non meno di quanto avveniva con Beniamino Cesi e Giuseppe Martucci. Un suonare, il suo, senza obliteranti e pignoleschi fardelli conservatori ali. Nella scelta delle musiche si compiaceva di attingere ai grandi che scrissero superando le possibilità foniche del ‘fortepiano’. Geni, le cui opere non si possono catalogare e collazionare nell’angusto mondo sonoro dei primi strumenti a martelletti. Il suo fortunato incontro con Thalberg lo spinse all’esplorazione sempre più approfondita della tastiera e dei suoi maggiori protagonisti.
Fu tra i primi a eseguire Mozart, vincendo l’indifferenza generale per questo autore, e le sue esecuzioni di sonate beethoveniane furono considerate modelli d’intuizione interpretativa. Molti i commenti scritti di allora e ancora più quelli verbali raccolti dai sopravvissuti. Entusiasta era Alessandro Longo; un po’ meno Florestano Rossomandi. Questi, pur ammirando e rispettando il Palumbo, sorrideva sottolineando come «oggi (1928) una sua esecuzione dell’op. 53 lascerebbe, a dir poco, perplessi!». Sua specializzazione tecnica furono le doppie terze, di cui Emilia Gubitosi, per qualche tempo alunna di Palumbo, si vantava di aver ereditato il segreto, eseguendo il difficile studio di terze del suo maestro, allora meta agognata dai pianisti aspiranti al virtuosismo!
Nell’ottocento musicale napoletano la forza di propulsione del suo talento fu determinante, non meno di quanto avveniva con Beniamino Cesi e Giuseppe Martucci. Un suonare, il suo, senza obliteranti e pignoleschi fardelli conservatori ali. Nella scelta delle musiche si compiaceva di attingere ai grandi che scrissero superando le possibilità foniche del ‘fortepiano’. Geni, le cui opere non si possono catalogare e collazionare nell’angusto mondo sonoro dei primi strumenti a martelletti. Il suo fortunato incontro con Thalberg lo spinse all’esplorazione sempre più approfondita della tastiera e dei suoi maggiori protagonisti.
Fu tra i primi a eseguire Mozart, vincendo l’indifferenza generale per questo autore, e le sue esecuzioni di sonate beethoveniane furono considerate modelli d’intuizione interpretativa. Molti i commenti scritti di allora e ancora più quelli verbali raccolti dai sopravvissuti. Entusiasta era Alessandro Longo; un po’ meno Florestano Rossomandi. Questi, pur ammirando e rispettando il Palumbo, sorrideva sottolineando come «oggi (1928) una sua esecuzione dell’op. 53 lascerebbe, a dir poco, perplessi!». Sua specializzazione tecnica furono le doppie terze, di cui Emilia Gubitosi, per qualche tempo alunna di Palumbo, si vantava di aver ereditato il segreto, eseguendo il difficile studio di terze del suo maestro, allora meta agognata dai pianisti aspiranti al virtuosismo!
La carriera di Costantino Palumbo fu ricca di affermazioni anche all’estero. In ambienti di classe elevata egli si fece notar subito ed ammirare poi, senza riserve. Nel 1868 fu a Parigi da Rossini. Francesco Florimo lo aveva segnalato al grande musicista che, già vecchio, riempiva i suoi ozi scrivendo i Péchés de vieillesse. Palumbo eseguiva questi pezzi leggendoli in presenza del Pesarese e riscuotendo la sua approvazione incondizionata. Ebbe, in Francia, dimestichezza con Francis Planté ed Henry Herz, il famoso virtuoso che, nonostante l’età avanzata, continuava a sorprendere il pubblico come velocista della tastiera.
I suoi rapporti con Beniamino Cesi furono cordiali. I due famosi concertisti, provenienti da canali didattici differenti (Cesi da Thalberg, Palumbo da Lanza e da Michelangelo Russo), si associarono in alcune manifestazioni per duo pianistico, eseguendo, tra l’altro, lo Studio op. 25 n. 2 di Chopin, nella rielaborazione per doppie terze e seste, operata da Brahms. Cosa, allora, sorprendente e di sicuro successo. A Milano fu ascoltato da Giovannina Lucca, che non solo acquistò per la sua casa editrice (assorbita poi dalla Ricordi) alcuni dei suoi pezzi pianistici, ma gli commissionò altra musica. Vennero fuori, così, molti pezzi da salon e ‘da concerto’, che Palumbo rendeva piacevoli, eseguendoli con le sue eleganti e scaltrite interpretazioni. Molte di queste pagine, allora popolari, furono raccolte in un volume pubblicato intorno al 1890 e hanno titoli attinti dalla narrativa e dalla novellistica: Cavalieri arabi, Nella notte; o da pretesti storico-musicali come Gavotta, Danza antica, fino all’assurdo tentativo d’un incontro con Dante Alighieri, realizzato nel trittico: Sonata fantasia sulla Divina Commedia, per pianoforte, coro, trombe, tromboni, piatti e timpani. Un Preludio e Fuga, scritto per il Metodo di Lebert e Stark, testimonia invece della sua perizia nel procedere con mano sicura attraverso il ginepraio contrappuntistico.
Nel 1873 Costantino Palumbo vinceva il concorso a insegnante di pianoforte principale nel Conservatorio di S. Pietro a Majella. Furono gioie e dolori. Le prime gli derivarono dalla classe che aveva generato pianisti allora rispettatissimi: Federico Bufaletti, Mario Vitali, Oscar Palermi, professori nei Conservatori e Licei Musicali di Torino, Pesaro e Napoli. Si aggiunga a essi il famoso direttore di banda Alessandro Vessella che, come tanti altri compositori e direttori, formò il suo bagaglio musicale nella classe di pianoforte.
Ma dal Conservatorio non gli vennero solo soddisfazioni. I dispiaceri giunsero puntuali. In una mattina d’inverno l’ispettore ministeriale è in sala dei professori al Conservatorio di S. Pietro a Majella. È un burocrate severo: collettone inumidato, coperto ai lati da una barbetta sale e pepe, il naso arcigno sui baffi cavallotti ani e gli occhiali a stanghette. È seduto accanto al tavolo sul quale si apre il registro dove i professori appongono la loro firma d’entrata e d’uscita. Costantino Palumbo, l’abbigliamento accurato, l’incedere distinto, entra nella sala: la sigaretta in bocca. «Professore – gli fa l’ispettore – qui non si fuma». «E allora Costantino Palumbo preferisce la sigaretta all’ispettore e si dimette. Sappia. A ogni modo, che per il Conservatorio di Napoli sarebbe stato meglio un Costantino Palumbo in più e un ispettore ministeriale in meno».
È una bozzettistica descrizione di quanto avvenne quella mattina in S. Pietro a Majella: ma diversa è la sostanza dei fatti che decisero le dimissioni di Costantino Palumbo da insegnante del Conservatorio. Sarebbe troppo ingenuo attribuire a un banale incidente una così grave decisione professionale. La verità è che Costantino Palumbo attraversò quella che oggi definiamo una ‘crisi esistenziale’, un rifiuto sempre più deciso di quanto circonda il nostro vivere. Amarezze, delusioni, difficoltà d’inserimento in ambienti che sentiamo mutati nell’ethos che ci aveva nutriti, coinvolti: forse intrappolati. La sigaretta, l’ispettore: ordinaria amministrazione pretestuosa. La posta in ballo era più delicata e sottile: profondamente radicata nell’animo dell’artista Palumbo, sensibile come pochi all’erodersi di situazioni che solo una forte dose di cinismo, chiamata di solito ‘coraggio’, può arrestare. Opportuna e discreta decisione sarà a ogni modo l’astenersi dallo scovare nell’intimo di chi rinunciò a conservare una presenza prestigiosa, ma di tenuta difficile, in un insidioso mondo pianistico. Tale, appunto, perché sovraccarico di fermenti, di idee e di contrastanti interessi che soverchiano troppo spesso il tradizionale curriculum della vita artistica locale.
Costantino Palumbo si ritirò in una villa di Posillipo, dove ancora si conserva il pianoforte a coda Erard su cui continuò l’esercizio quotidiano della tastiera, ascoltando pure tanti pianisti che andavano a consultarlo, a chiedere alla sua esperienza di concertista famoso quelle scaltrezze d’accentuazione che (talvolta succede!) possono stimolare le sopite risorse dell’interprete immaturo.
I suoi rapporti con Beniamino Cesi furono cordiali. I due famosi concertisti, provenienti da canali didattici differenti (Cesi da Thalberg, Palumbo da Lanza e da Michelangelo Russo), si associarono in alcune manifestazioni per duo pianistico, eseguendo, tra l’altro, lo Studio op. 25 n. 2 di Chopin, nella rielaborazione per doppie terze e seste, operata da Brahms. Cosa, allora, sorprendente e di sicuro successo. A Milano fu ascoltato da Giovannina Lucca, che non solo acquistò per la sua casa editrice (assorbita poi dalla Ricordi) alcuni dei suoi pezzi pianistici, ma gli commissionò altra musica. Vennero fuori, così, molti pezzi da salon e ‘da concerto’, che Palumbo rendeva piacevoli, eseguendoli con le sue eleganti e scaltrite interpretazioni. Molte di queste pagine, allora popolari, furono raccolte in un volume pubblicato intorno al 1890 e hanno titoli attinti dalla narrativa e dalla novellistica: Cavalieri arabi, Nella notte; o da pretesti storico-musicali come Gavotta, Danza antica, fino all’assurdo tentativo d’un incontro con Dante Alighieri, realizzato nel trittico: Sonata fantasia sulla Divina Commedia, per pianoforte, coro, trombe, tromboni, piatti e timpani. Un Preludio e Fuga, scritto per il Metodo di Lebert e Stark, testimonia invece della sua perizia nel procedere con mano sicura attraverso il ginepraio contrappuntistico.
Nel 1873 Costantino Palumbo vinceva il concorso a insegnante di pianoforte principale nel Conservatorio di S. Pietro a Majella. Furono gioie e dolori. Le prime gli derivarono dalla classe che aveva generato pianisti allora rispettatissimi: Federico Bufaletti, Mario Vitali, Oscar Palermi, professori nei Conservatori e Licei Musicali di Torino, Pesaro e Napoli. Si aggiunga a essi il famoso direttore di banda Alessandro Vessella che, come tanti altri compositori e direttori, formò il suo bagaglio musicale nella classe di pianoforte.
Ma dal Conservatorio non gli vennero solo soddisfazioni. I dispiaceri giunsero puntuali. In una mattina d’inverno l’ispettore ministeriale è in sala dei professori al Conservatorio di S. Pietro a Majella. È un burocrate severo: collettone inumidato, coperto ai lati da una barbetta sale e pepe, il naso arcigno sui baffi cavallotti ani e gli occhiali a stanghette. È seduto accanto al tavolo sul quale si apre il registro dove i professori appongono la loro firma d’entrata e d’uscita. Costantino Palumbo, l’abbigliamento accurato, l’incedere distinto, entra nella sala: la sigaretta in bocca. «Professore – gli fa l’ispettore – qui non si fuma». «E allora Costantino Palumbo preferisce la sigaretta all’ispettore e si dimette. Sappia. A ogni modo, che per il Conservatorio di Napoli sarebbe stato meglio un Costantino Palumbo in più e un ispettore ministeriale in meno».
È una bozzettistica descrizione di quanto avvenne quella mattina in S. Pietro a Majella: ma diversa è la sostanza dei fatti che decisero le dimissioni di Costantino Palumbo da insegnante del Conservatorio. Sarebbe troppo ingenuo attribuire a un banale incidente una così grave decisione professionale. La verità è che Costantino Palumbo attraversò quella che oggi definiamo una ‘crisi esistenziale’, un rifiuto sempre più deciso di quanto circonda il nostro vivere. Amarezze, delusioni, difficoltà d’inserimento in ambienti che sentiamo mutati nell’ethos che ci aveva nutriti, coinvolti: forse intrappolati. La sigaretta, l’ispettore: ordinaria amministrazione pretestuosa. La posta in ballo era più delicata e sottile: profondamente radicata nell’animo dell’artista Palumbo, sensibile come pochi all’erodersi di situazioni che solo una forte dose di cinismo, chiamata di solito ‘coraggio’, può arrestare. Opportuna e discreta decisione sarà a ogni modo l’astenersi dallo scovare nell’intimo di chi rinunciò a conservare una presenza prestigiosa, ma di tenuta difficile, in un insidioso mondo pianistico. Tale, appunto, perché sovraccarico di fermenti, di idee e di contrastanti interessi che soverchiano troppo spesso il tradizionale curriculum della vita artistica locale.
Costantino Palumbo si ritirò in una villa di Posillipo, dove ancora si conserva il pianoforte a coda Erard su cui continuò l’esercizio quotidiano della tastiera, ascoltando pure tanti pianisti che andavano a consultarlo, a chiedere alla sua esperienza di concertista famoso quelle scaltrezze d’accentuazione che (talvolta succede!) possono stimolare le sopite risorse dell’interprete immaturo.
(da Vincenzo Vitale (Napoli, 13 dicembre 1908 – Ivi, 21 luglio 1984), Il pianoforte a Napoli nell’ottocento, Saggi Bibliopolis 10, Napoli: Bibliopolis 1983, pp. 83-86)
Adriana Benignetti