Giovedì 1
marzo e sabato 3 marzo, in un programma interamente dedicato a Béla
Bartók
Due
tra i più affermati giovani musicisti italiani nel mondo, il violinista Marco Rizzi e il direttore d’orchestra Tito Ceccherini saranno i protagonisti
del programma di questa settimana al Teatro Dal Verme di Milano. Un programma
interamente dedicato a uno dei massimi compositori del ‘900, Béla Bartók: Schizzi, Rapsodia per violino e orchestra n.1, Rapsodia per violino e orchestra n.2, Canti contadini ungheresi e Suite
di danze i brani che saranno eseguiti.
Guida all'ascolto
di Marcello Sirotti
Visto sulla
carta, un programma di concerto dedicato esclusivamente ad un unico autore può
far pensare ad una ricorrenza speciale o una rassegna. Ma l’omaggio che
quest’oggi i Pomeriggi vogliono offrire all’altissimo nome di Béla Bartók
risponde non tanto a esigenze incidentali quanto, piuttosto, all’istanza di
puntare una lente d’ingrandimento su una figura-chiave della storia musicale
del Novecento; anzi, meglio, su un segmento del suo iter creativo. Solo uno
sguardo prolungato infatti permette di prendere pieno possesso di un mondo
sonoro tanto speciale; frammentarlo in mille scaglie qua e là sarebbe stata forse
operazione dispersiva, meglio quindi un ascolto compatto e a senso unico. Sarà
la ricchezza degli stimoli musicali, così implicita nell’opera di Bartók, a
decidere la varietà della serata: a ben pochi autori sarebbe concesso di tenere
banco tanto autorevolmente dalla prima all’ultima nota di un’esecuzione
sinfonica. Per accostarsi al Bartók di quest’oggi, che si potrebbe definire
“ormai maturo e consapevole”, è necessario anzitutto fare un passo indietro e
risalire all’ultima fase di formazione giovanile, quella che ci consegna un
compositore già discretamente affermato, specialmente oltreconfine, e un
pianista di altissimo profilo, in grado di contendersi la scena europea con i
migliori virtuosi dell’epoca. In più animato da un interesse nuovo e raro: la
etnomusicologia. Bartók si tuffa, a far capo dal 1905, in questa materia ancora
inesplorata nel suo paese, prima solo poi insieme all’altro grande personaggio
della scena musicale ungherese del tempo: Zoltán Kodály. Instancabilmente, in
pellegrinaggi che si estenderanno anche al resto dei Balcani, al Nord Africa e
all’Anatolia, Bartók “draga” in lungo e in largo paesi e campagne, a caccia di
testimonianze dal vivo di tracce di musica popolare. Con fonografo e taccuino
alla mano, raccoglie e riordina un’infinità di materiale, ne razionalizza il
contenuto e intuisce l’intrinseca ricchezza della miniera appena scovata: non
tanto e non solo per un repertorio folklorico fine a se stesso quanto, cosa che
applicherà fino alle ultime opere, per l’apporto vitale che esso può dare alla
musica cosiddetta ufficiale. Il tutto con l’intento, ampiamente condiviso con
Kodály, di dare dignità e significato ad un patrimonio musicale veramente
“nazionale”, affrancato da quel cliché che lo dipinge tutto czárdas,
orchestrine tzigane e violinisti fra i tavoli. Affiancato a una curiosità
costante verso tutto ciò che intorno si muove (dalla valanga straussiana, alle
sonorità liquide dell’impressionismo, ai graffi dell’espressionismo) e fuso con
una straordinaria inventiva originale, l’impulso vitale della musica popolare
diventa così, e lo rimarrà per sempre, il tratto costante della cifra
bartókiana. E ciò che poteva ridursi ad un mero censimento, forse destinato a
una polverosa fonoteca di Budapest, si è invece tradotto nella spina dorsale di
tutta un’ossatura creativa, cui il Novecento deve molto. La finestra che
apriamo su questo Bartók, che copre un arco di tempo fra il ’14 e il ’33, ci
offre già uno spaccato significativo in tal senso. L’ascolto si apre con quello
che il catalogo riporta come uno dei brani più recenti del programma: Schizzi, composto nel 1931. In realtà, il collage approntato in quell’anno è frutto della trascrizione per
orchestra di piccoli brani pianistici nati ben precedentemente, per la
precisione fra il 1908 e il 1911, e riconfezionati ora in un’unica raccolta. I
cinque pannelli che formano il quadro unitario svelano già dai titoli singoli,
così evocativi, la loro missione descrittiva ed è fortissimo il riferimento a
paesaggi, suoni e umori legati al contesto popolare e al ritmo dei campi. Dalla
Veglia presso gli Székelys, ispirata all’etnia ungherese di Transilvania, fino alla conclusiva Danza dei porcari, la linea degli Schizzi
si snoda seguendo il battito della descrizione miniata, spesso a colori vividi,
altre volte brunita da un velo di nostalgia. A decidere il timbro, la scelta
della griglia orchestrale, vero segreto dell’arte del trascrivere. Bartók
magistralmente sfrutta le frequenze della suo organico “standard” seguendo le
urgenze della descrizione: un suono più acuto e trasparente, affidato
principalmente ai cosiddetti “fiatini” (flauti, oboi e clarinetti) e al
tintinnio del triangolo per i momenti meditativi, l’aggiunta di squilli di
trombe quando il quadro si presenta più brillante e serrato e, al contrario,
l’aggravamento verso un timbro scuro e percussivo, con l’impiego di tuba,
timpani e grancassa se il passo di danza si appesantisce e si cerca l’effetto
di un piede battuto a terra: studiati colpi di pennello sulla tela solida degli
strumenti ad arco. Ed è proprio su quest’ultima famiglia, anzi sul violino che
ne è principe, che si incentrano la seconda e la terza tappa della nostra maratona
bartókiana. Se appare normale e conseguente che Bartók, eccellente pianista,
abbia dedicato al suo strumento un gran numero di composizioni, è altrettanto
innegabile che gli archi abbiano sempre goduto di un’attenzione speciale da
parte del compositore. A prescindere dalla scrittura squisitamente orchestrale,
che mai li ha relegati a mero sfondo per i virtuosismi di altri, la
predilezione di Bartók verso gli archi ha preso forma concreta nella collezione
insuperabile dei 6 Quartetti,
a detta di più critici l’apice dell’intero catalogo del compositore, in un
tardo Concerto per viola
e in un buon numero di opere dedicate al violino solista. Di queste ultime, le
due Rapsodie si
mostrano, al di là del piacere dell’ascolto, come lavori di estremo interesse sotto
molteplici punti di vista. Nel corso della carriera, in Ungheria prima negli
Stati Uniti poi, Bartók fu sempre circondato da violinisti eccellenti. Suoi
colleghi, amici e “cavie” furono nomi di prima grandezza nel firmamento
violinistico dei primi 50 anni del Novecento, dal connazionale Imre Waldbauer,
a capo del glorioso quartetto omonimo, fino alla superstar Yehudi Menuin, per
il quale fu scritta nel ’44 la Sonata
per violino,
uno degli ultimi capolavori. Fra i virtuosi di riferimento, spiccano i nomi
inconfondibilmente magiari di Joseph Szigeti e Zoltán Székely, i quali
occuparono un posto molto speciale fra i partner di Bartók. Szigeti, violinista
di caratura internazionale, non solo ispirò la vena del compositore ma si
rivelò decisiva figura di riferimento anche riguardo alle cose della vita. Fu
lui a promuovere il nome di Bartók anche nei non così rari “momenti no” del
compositore, favorì il contatto con le personalità musicali più importanti e
più disparate (uno fra tutti: il clarinettista Benny Goodman), aiutò anche
materialmente l’amico Béla nei complicati anni americani, giungendo a
procacciargli a sua insaputa la commissione del Concerto per Orchestra, forse fra tutte la
sua pagina più celebre. Dal canto suo
Zoltán Szekély, violinista meno appariscente ma con lo sguardo orientato al
futuro e forse ancora più attento nel tradurre le sperimentazioni sullo
strumento, influenzò enormemente il lavoro di Bartók. Per Szigeti e Szekély,
rispecchiando le loro ben diverse personalità musicali, furono scritte
rispettivamente le Rapsodie n.1 e n.2. Composte
più o meno parallelamente, nel 1928, nella versione originale per violino e
pianoforte, le due Rapsodie
hanno invece conosciuto uno scarto di diversi anni per quanto riguarda la
versione orchestrata. Praticamente immediata la doppia veste della prima
(Szigeti tenne a battesimo a Londra, nell’arco di pochi mesi, entrambe le
versioni); più diluita nel tempo e più rielaborata l’orchestrazione della
seconda, conclusa nel ‘35 e pubblicata solo nel ’44. I due lavori seguono lo
schema classico della rapsodia ungherese, consacrato a suo tempo da Liszt, che
prevede l’accostamento di due movimenti contrastanti: il Lassù, di andamento lento
e malinconico e il Friss,
movimento di danza via via più frenetico. A offrire il materiale musicale,
neanche a dirlo, spunti di motivi popolari rielaborati in chiave “colta” e
assemblati piuttosto liberamente, come è tipico della forma rapsodica,
lasciando in risalto le capacità tecniche del solista. Poco importa se lo sfondo
sia un’austera sala da concerto o la piazza del villaggio, lo spirito di queste
rapsodie si incarna nell’emozione “tzigana” che il violino riesce a
trasmettere: trucchi del mestiere, da uno smaliziato glissando languido ad
un’indiavolata cavalcata fra figurazioni rapidissime. Più lineare la prima Rapsodia, costruita
sull’intreccio di motivi ungaro-rumeni e un movimento rapido riepilogativo,
praticamente autosufficiente, che potrebbe essere un perfetto bis di fine
recital (fu lo stesso Bartók ad autorizzare l’esecuzione separata dei due
movimenti). Più ragionata e “cerebrale”, invece, appare la seconda delle
rapsodie, tagliata sulle caratteristiche di Szekély e basata sulla miscellanea
di un più ampio numero di temi balcanici. Il movimento lento ora non si muove
così libero ma si assoggetta allo schema di una sorta di rondò nel quale il
motivo principale riappare ciclicamente. E ancora più articolato appare il
tempo rapido, costruito quasi su scaglie tematiche libere e sempre pronto a
lanciarsi in combinazioni azzardate: zoppie ritmiche così tipiche della musica
di quei luoghi e, armonicamente, accordi dissonanti trascritti fedelmente dalle
registrazioni fonografiche, carichi di una forza d’urto di modernità
sorprendente. Alla madre terra si torna con la raccolta dei Canti
contadini ungheresi e con la conclusiva,
celebre Suite di danze. Per i Canti vale tutto quanto si
è detto a proposito degli Schizzi
di apertura: stessa genesi e stesso tempistica di elaborazione, secondo uno
schema che ormai ci è familiare. Anche qui infatti si tratta di una raccolta di
frammenti popolari (in questo caso scovati intorno al 1910 a Ipolyság, ora in
Slovacchia, grazie all’aiuto di un oscuro archivista locale), codificati in una
prima stesura per pianoforte fra il 1914 e il ‘18. L’orchestrazione di alcuni
di essi, che formano I Canti
contadini all’ascolto odierno, risale invece a parecchi anni più
tardi, esattamente al 1933, culmine di un periodo avaro di idee originali ma
ricchissimo, peraltro, di preziosi lavori di trascrizione. Stesse atmosfere
agresti, stesso contrasto fra tempi lenti e tempi rapidi. Nel 1923 cadeva il
cinquantesimo anniversario della Budapest odierna, nata dall’unione di tre
città limitrofe: Buda, Óbuda e Pest. Nell’occasione si tennero celebrazioni di
vario tipo e, per quanto riguarda la musica, fu organizzato un grande concerto
per il mese di novembre destinato a dare ampio spazio alle figure più
significative del panorama nazionale. Bartók, Kodály e Dohnányi vennero così
invitati a contribuire alla cerimonia offrendo, ognuno, una composizione di
nuovo conio in grado di dare lustro a questa vetrina di ritrovato orgoglio
nazionale. L’apporto di Bartók fu la Tancszvit,
alla lettera Suite di danze.
A formarla una sequenza ininterrotta di sei piccoli brani, della durata media
di 2-3 minuti. Sei quadretti che volano via, allacciati l’uno all’altro da un
Leitmotiv, un filo conduttore che fa da ritornello e introduce le danze una ad
una. L’idea di Bartók è quella di offrire non lo spaccato folklorico di un certo
luogo specifico ma la miscela di tante voci dei luoghi più disparati. I temi
(in questo caso non originali ma creati ad hoc) si rifanno così a motivi
valacchi, slovacchi, perfino arabi e, naturalmente, ungheresi. Affiancati e a
volte intrecciati sotto l’unica campata della suite, formano una specie di
puzzle composito che sarebbe difficile immaginare a pezzetti ma che lascia
fondamentalmente integre vitalità e forma di ogni singola tessera che lo
compone. Ecco, le microforme. Il rispettoso Bartók le cristallizza, le rende
ragionevoli, le fa sue pur partendo dalla considerazione di base che vuole la
musica popolare, per sua stessa natura, insofferente alle forme precostituite.
Ogni cellula ospita, pur se in scala ridotta, una costruzione compiuta e a séstante;
la mano sapiente dell’autore dà senso unitario al tutto, riportando verso un
unico recinto le singole voci della babele danubiana. Ma al di là dei
ragionamenti teorici, che si snodano fra perimetri precisi e scintille
ispiratrici, quanto spirito irrequieto trapela dagli ordinati pentagrammi!
Tolti gli abiti da cerimonia nazionalista, il vero Bartók traduce in suoni le
inquietudini del suo tempo, della sua terra, di sé stesso. Colori sinistri su
sfondi vitrei, pugnalate ripetute a tutt’arco, glissandi di arpa ad aprire
chissà quali porte, l’unisono bruno e nasale di oboe e corno inglese: tutte
pennellate forti a screziare l’ingenuo quadretto degli abiti della festa e dei
piedi saltellanti. A passo di danza e incalzato dalle urgenze celebrative,
Bartók svela, ancora una volta e comunque, le cifre del suo stile unico e
personalissimo: quelle di un autore vicino a tutti gli “ismi” del suo tempo e
mai rinchiuso in nessuno di essi. Attento, libero, per nulla schiavo del nuovo
a priori, il Maestro ungherese ha introdotto, per vie incruente, modelli audaci
che hanno deciso le sorti di tutto il secolo musicale e sotto la bandiera
dell’alfabeto poco più che primitivo della musica popolare, ha aperto strade
ampie e nuovissime lungo le quali hanno camminato generazioni di musicisti a
venire. La sua grandezza si traduce non in uno o più colpi di genio creativi ma
in un lavoro incessante di sintesi e di elaborazione, che ha saputo coniugare
fino all’ultimo rigore scientifico e inventiva; a tutto questo si deve il giudizio
unanime del mondo musicale contemporaneo, che ha assegnato a Bartók un posto di
assoluta prima fila, collocandolo fra gli autori fondamentali del Novecento
storico.
***** fine della guida all'ascolto di Marcello Sirotti *****
VERKLÄRTE NACHT / NOTTE TRASFIGURATA
un progetto ideato da Mario Brunello con Marco Paolini
Ludwig van Beethoven
Trio con pianoforte op.97 in si bemolle maggiore "degli Spettri"
testo "La donna dell'altro secolo" di Marco Paolini
musiche di Arnold Schönberg -- Verklärte Nacht op.4
(trascrizione per Trio di Eduard Steuermann)
Marco Rizzi, violino
Mario Brunello, violoncello
Andrea Lucchesini, pianoforte
Marco Paolini, voce recitante
produzione antiruggine -- Fucina Artesella
«Un violinista di prima classe, con una ricca
tavolozza di suoni, una bella tecnica e un affascinante legato cantabile, un
musicista di sorprendente onestà e maturità» (STRAD)
Premiato
nei 3 concorsi più prestigiosi per violino – il “Čajkovskij” di Mosca, il “Reine Elisabeth” di Bruxelles e l’“Indianapolis
Violin Competition” – Marco Rizzi è particolarmente apprezzato per la
qualità, la forza e la profondità delle sue interpretazioni. Dopo aver studiato
con eccezionali insegnanti come G. Magnani, S. Accardo e W. Liberman ed
essendosi diplomato con lode e menzione speciale presso i Conservatori di
Milano e Utrecht, viene presto riconosciuto come il più interessante violinista
della nuova generazione e gli viene conferito, su indicazione di Claudio
Abbado, l’“Europäischen Musikförderpreis” nel 1991. Regolarmente ospite delle
sale più prestigiose come la Scala di Milano, la Salle Gaveau e la Salle Pleyel
a Parigi, il Lincoln Center di New York, la Sala Grande del Conservatorio di
Mosca, la Musikhalle di Amburgo, il Tivoli di Copenhagen, il Concertgebouw di
Amsterdam, la Konzerthaus di Berlino, ha collaborato con direttori quali
Riccardo Chailly, Hans Vonk, Aldo Ceccato, Vladimir Jurowski, Peter Eötvös, e
con rinomate orchestre quali la Staatskapelle Dresden, la Indianapolis Symphony
Orchestra, la Royal Liverpool Philharmonic, la Hong Kong Philharmonic, la
Rotterdam Philharmonisch, l’Orquesta RTVE di Madrid, la BBC Scottish Symphony,
la Netherlands Philharmonic Orchestra, l’Orchestra Filarmonica della Radio
Olandese e numerose altre. Violinista in continua evoluzione, ogni anno Marco
Rizzi arricchisce di un concerto il suo già vasto repertorio con orchestra:
nelle ultime stagioni si sono dunque aggiunti via via il Concerto di Glazunow, Omaggio
di Van Vlijmen, Concerto n. 1 di
Paganini, il Concerto n. 2 di Shostakovich,
il Concerto di W. Walton e il Concerto di Martinu Inoltre, il suo vivo
interesse per programmi non "di repertorio" permette di far conoscere
al suo pubblico capolavori inusuali come la Sonata
di B. Walter o il Concerto di J.
Adams. Si inquadrano in questa linea le incisioni dedicate alla musica italiana
per violino e pianoforte del '900 che, come la sua registrazione delle Sonate e Partite di J.S. Bach, hanno
riscosso entusiastici consensi nel mondo musicale. All’attività solistica Marco
Rizzi affianca una dimensione cameristica vissuta con passione; con partner come
Andrea Lucchesini, Mario Brunello, Lila Zylberstein, Nobuko Imai è spesso
ospite di prestigiosi Festival cameristici internazionali. In ambito didattico
insegna in una classe di livello internazionale alla Hochschule für Musik –
Mannheim (Germania), dove è titolare di una cattedra di violino, e alla
prestigiosa Escuela Superior de Musica Reina Sofia di Madrid. Marco Rizzi
attualmente suona un violino Pietro Guarneri del 1743, messogli a disposizione
dalla Fondazione Pro Canale Onlus.
Teatro
Dal Verme, via San Giovanni sul Muro 2, Milano
Giovedì
1 marzo ore 21
Sabato
3 marzo ore 17
Béla Bartók (Nagyszentmiklós, 1881 – New York,
1945)
Schizzi
Rapsodia
per violino e orchestra n.1
Rapsodia
per violino e orchestra n.2
Canti
contadini ungheresi
Suite
di danze
Direttore Tito Ceccherini
Violino Marco Rizzi
Orchestra
I Pomeriggi Musicali
Per
maggiori informazioni: Fondazione
I Pomeriggi Musicali: Tel 02 87905
Adriana
Benignetti