giovedì 14 marzo 2013

“Johannes-Passion BWV 245” di Johann Sebastian Bach

Guida all’ascolto della “Passione secondo Giovanni” a cura di Marco Faelli (©Teatro Lirico di Cagliari)


La “Johannes-passio” di Bach viene eseguita per la prima volta il 7 aprile 1724 (Venerdì Santo) a Lipsia, nella Nikolaikirche, anziché, come era previsto, nella Thomaskirche, dove il compositore aveva assunto il ruolo di “Kantor” l’anno precedente. Il testo è tratto dai capitoli 18 e 19 del Vangelo secondo Giovanni, a cui sono aggiunti undici “corali”, e una decina tra “arie” e “ariosi” su testi di Barthold Heinrich Brockes (già autore di vari Oratori ispirati alla Passione di Cristo), modificati dallo stesso Bach, forse con l’aiuto dell’amico poeta Christian Friedrich Henrici, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Picander.


Il genere musicale “Passione” nasce e si diffonde nell’ambiente barocco tedesco, a partire dall’opera di Heinrich Schutz (secolo XVII), diventando, soprattutto ad Amburgo, una vera forma teatrale, estranea al servizio liturgico. Gli antecedenti vanno ricercati sia nelle Sacre Rappresentazioni della Settimana Santa, sia nell’Oratorio, sostituto “cieco” del melodramma per il periodo quaresimale. La struttura, infatti, è sostanzialmente quella di un Oratorio, a sua volta (almeno in ambito bachiano) amplificazione della Cantata, le cui componenti principali sono: grande “Chorus” iniziale (e, a volte, finale), Corali, recitativi e arie solistiche. Le “Passioni”, però, hanno sviluppo superiore, e sono caratterizzate dalla presenza dell’Evangelista, che assume la funzione recitativa dello “Storico”, presente già nei primi esempi secenteschi di Oratorio. Nelle “Passioni” vengono inseriti anche molti brani corali contrappuntistici, introdotti dai recitativi dell’Evangelista, che rappresentano la “turba” degli Ebrei.

La narrazione della Passione di Cristo nel Vangelo secondo Giovanni è sostanzialmente vicina a quella dei sinottici, ma con alcune caratteristiche proprie. Giovanni è più sintetico, e ha una narrazione meno drammatica: omette, infatti, molti particolari, tra cui l’agonia nel Getsemani, il bacio di Giuda, il processo di Gesù davanti al Sinedrio, gli oltraggi che Gesù subisce in casa del Gran Sacerdote, il suicidio di Giuda, l’interrogatorio da parte di Erode Antipa (di cui parlano solo Luca e l’apocrifo “Vangelo di Pietro”), gli scherni sotto la croce, le tenebre al momento della morte. Inoltre Giovanni è l’unico a parlare della presenza di Maria ai piedi della croce, dell’affidamento della madre al discepolo prediletto, e del sangue che sgorga insieme all’acqua dal costato trafitto di Cristo. Questi due particolari, e l’insistenza sulla veridicità della testimonianza, sono verosimilmente riconducibili a un testimone diretto della crocifissione, forse non conosciuto dai Sinottici, indipendentemente dalla controversa identità dell’autore del Quarto Vangelo.

Il Vangelo secondo Giovanni è notevolmente influenzato dall’ambiente culturale greco, soprattutto stoico (i concetti di ἀρχη’ e di λóγος con cui si apre il Prologo sono inequivocabili). La sua prospettiva, quindi, è più teologica che storica, incentrata sul Cristo della Fede piuttosto che sul Gesù storico, e finalizzata all’affermazione della divinità del Messia. Nella scena della cattura, infatti, Gesù afferma con autorità “Sono io” alle guardie del tempio, e quest’affermazione le fa cadere a terra tramortite (i Sinottici non ne parlano, e presumibilmente non si tratta di un fatto storico, ma di un “racconto di professione di fede”). Nella stessa prospettiva si colloca anche l’ampio spazio dedicato al processo celebrato da Pilato, con la chiara proclamazione della regalità divina di Cristo, le ripetute domande del proconsole (“Tu sei re?”, e ancor più “Di dove sei tu?”), l’affermazione di Cristo (“Io sono Re”), gli episodi dell’“Ecce homo” e dell’“Ecce Rex vester”, le discussioni sul cartello posto sulla croce. E quando Gesù viene presentato alla folla da Pilato, il Salvatore indossa ancora il mantello regale di porpora. La prospettiva teologica emerge anche dall’interpretazione biblica degli episodi della Passione, intesi come realizzazione della Scrittura, e su cui insiste Giovanni: la divisione delle vesti da parte dei soldati (Salmi 22, 19), il fatto che non vengano spezzate le gambe a Gesù (Esodo 12, 46; Numeri 9, 12), la lancia che lo trafigge (Zaccaria 12, 10), la frase “Ho sete” pronunciata da Cristo (Salmi 69, 22, oppure Salmi 22, 16).

Bach compose cinque “Passioni”, di cui ne restano due (“Johannes-passion” e “Matthaus-passion”), più una controversa “Lukas-passion”, presumibilmente copia autografa di Bach di un’opera altrui. Entrambe le opere superstiti furono scritte a Lipsia, ambiente fortemente conservatore, lontano dalle suggestioni teatrali di Amburgo, e consono alla severa concezione musicale di Bach; che, pur raggiungendo altissime vette espressive e anche drammatiche, rinuncia volentieri all’impiego di stilemi melodrammatici, cari a Telemann o a Haendel.

La “Johannes-passion” è una monumentale liturgia, inclusa tra due brani corali di grande sviluppo (“Herr, unser Herscher” e “Ruh, ihr eiligen Gebeine”). È suddivisa in due parti non simmetriche, la prima incentrata sulla cattura di Gesù, la seconda sul processo, la crocifissione, la sepoltura.

La struttura complessiva è questa (è evidente l’alternanza di narrazione e di commento):
Prima parte:
  “Chorus” introduttivo
 Gli eventi della cattura; Gesù da Anna e da Caifa
 Commento (aria del contralto, aria del soprano)
 Negazione di Pietro
 Commento (aria del tenore)

Seconda parte:
 Gesù processato da Pilato
 Commento (arioso del basso, aria del tenore)
 Condanna
 Commento (aria del basso)
 Crocifissione
 Commento (aria del contralto, aria del basso, arioso del  tenore, aria del soprano)
 Sepoltura
 “Chorus” finale e Corale “teologico”

Il “Chorus” che introduce la Passione è simile a una gigantesca parete su cui siano affrescate la Crocifissione e la Resurrezione. Il testo recita, in sintesi: “Signore, nostro Sovrano, mostraci che anche nella più grande umiliazione sei stato glorificato”, e corrisponde sostanzialmente al Kήρυγμα, primo annuncio degli Apostoli e nucleo essenziale della nuova fede (“Questo Gesù Dio l’ha risuscitato, e noi tutti ne siamo testimoni, “Atti”, 2, 32). Il brano, è caratterizzato da un ostinato movimento di quartine di semicrome affidate agli archi, ipnotico e incombente nel suo fluire continuo, che crea un clima pesante e angoscioso, e che presenta un’inequivocabile analogia con l’Inizio fugato del “Requiem in Re minore” di Mozart. Su questa base emergono continui e dolenti ritardi, declamati in tono estroverso dai legni, che dilazionando continuamente la risoluzione armonica guidano all’entrata declamata e teatrale del coro, che ripete per tre volte (simboleggiando la Trinità) la formula “Herr!”, “Signore!”. Da qui le sezioni corali si snodano omoritmicamente in un fluente “moto perpetuo” ricco di “pathos”, interrotto nuovamente dalla triplice proclamazione. Il ritorno frequente del tema iniziale viene alternato con passi di carattere più contrappuntistico, con funzione di devoto alleggerimento fonico e tensivo, secondo il complesso schema seguente:
A (tema iniziale) - B1 (breve fugato) - B2 (altro breve fugato) - A - C (terzo fugato)
B1 - A - B1 - C.

L’Evangelista inizia a narrare gli eventi della cattura, e introduce immediatamente la “Turba” dei Giudei, entrati nell’orto degli Ulivi alla ricerca di Cristo. Alla sua richiesta (“Chi cercate?”) le guardie del Tempio rispondono per due volte con un aggressivo declamato corale, reso concitato dalle incalzanti quartine di violini e flauti: “Jesum von Nazareth!”.
Oltre che dai commenti espressi nelle arie solistiche (concentrate in chiusura delle scene) la narrazione è punteggiata continuamente da “Corali”, costruiti su melodie liturgiche popolari, ma trasfigurate dalla sofferta armonia bachiana. Se gli interventi solistici esprimono la severa e interiore meditazione del singolo fedele, che si sforza di soffrire intellettualmente del dolore di Cristo, secondo le concezioni del “Pietismo” secentesco (“trasformare il piombo dell’anima in oro”), i Corali rappresentano l’assemblea liturgica, che si riconosce in un linguaggio semplice e sentimentale, accessibile a tutti. Ne incontriamo subito uno, in cui si proclama; “Sia fatta la tua volontà”; e si chiede: “Donaci obbedienza e liberaci dal peccato”.

Il racconto prosegue con Gesù che viene condotto, legato, da Caifa. E qui incontriamo la prima riflessione del fedele, proposta dal contralto: “Per liberarmi dai lacci dei miei peccati, il mio Salvatore viene legato”. Un disegno ritmico ternario, affidato al basso continuo, regge l’intero brano, strutturato come una specie di passacaglia, e creando un suggestivo effetto di “danza al rallentatore”, che attenua il carattere dolente dei ritardi e dei salti melodici discendenti. Sul tema del basso si dipana un dialogo che coinvolge in modo paritario il canto e due oboi, e che nasce da un intervallo di quinta discendente riproposto nella sua essenzialità o riempito con “fioriture di passaggio”. L’armonia, di questa come di molte arie della “Passione”, è sempre elusiva, divergente, “contorta”, e le semplicissime cellule tematiche sono continuamente isolate e ricomposte, quasi il fedele non fosse mai pago di interiorizzare e rielaborare i concetti appresi dal Vangelo.

Un breve passo narrativo (Gv, 18, 15) riferisce che Pietro, assieme ad un altro discepolo, segue Cristo. Da qui Bach trae spunto per una vivace e gioiosa aria “di sequela” (l’unica serena in tutta la “Johannes”), in cui il credente afferma con entusiasmo: “Anche io ti seguo con passi gioiosi”). Si tratta di un elegante dialogo tra il soprano e il flauto, dove la raffinata essenzialità fonica è impreziosita da un trattamento capillare dei motivi, e pervasa da un clima di affetto e dolcezza.

Dopo un altro corale, riappare la “Turba”, nell’episodio della triplice negazione di Pietro: in questo, come in altri interventi analoghi, il vociare della folla, l’accavallarsi delle grida e il conseguente l’effetto caotico vengono ottenuti mediante più o meno sviluppati fugati, in cui le parti entrano successivamente “a terrazza”, e il tema (sostanzialmente ritmico) riaffiora continuamente nelle diverse voci che si sovrappongono con effetto crescente.

Con la prima Aria del tenore, seguita da un Corale, termina la prima parte della “Passione”. La riflessione è qui introdotta dal pianto di Pietro, che al canto del gallo si ricorda amaramente delle parole di Gesù. L’aria è ansiosa, nervosa, quasi disordinata nel rapido alternarsi di spunti ritmici contrastanti, con cui dialoga internamente l’orchestra. Il tenore, infatti, declama disorientato: “Dove andare, dove trovare conforto?”. E l’elusivo percorso musicale dipinge in modo coinvolgente l’assenza di centro che sconvolge l’animo del fedele.

La seconda parte si apre con un Corale, dopo il quale compare subito una contradditoria figura chiave della narrazione evangelica, Ponzio Pilato, Prefetto della Giudea: “implacabile, senza riguardi e ostinato” secondo Filone di Alessandria, ma personalmente non ostile a Gesù secondo i Vangeli, che sembrano quasi trattarlo con una certa indulgenza, mentre imputano soprattutto ai Giudei la morte di Cristo. L’accentuazione della loro responsabilità, però, è dovuta probabilmente alle tensioni tra Ebrei e Cristiani, che verso la fine del primo secolo (nel periodo in cui viene formulata la redazione finale dei Vangeli) portano all’espulsione dei seguaci di Gesù dalle Sinagoghe, facendo perdere al nascente Cristianesimo lo stato di “religio licita”, ed esponendone i seguaci a possibili ritorsioni dell’autorità romana.
Pilato esce malvolentieri dal palazzo e chiede: “Che accusa portate contro quest’uomo?”; e la “Turba” risponde, senza chiarire troppo: “Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo portato”. L’intervento è costruito mediante un complesso fugato, con cromatismi ascendenti, tensioni armoniche, incalzanti note ribattute; in seguito l’introduzione di un nuovo spunto tematico, ritmicamente frastagliato, aumenta la concitazione e l’”effetto disordine”. Si crea così un clima di instabilità, in cui ci si sente trascinati senza capire dove dal susseguirsi dei temi, dei cromatismi, dei ritmi, fino alla chiusa fragorosa con brevi e aggressivi accordi corali.

Alla replica di Pilato (“Prendetelo e giudicatelo voi secondo la vostra legge”) la “Turba” ribatte, in ossequio alla legge romana: “Noi non possiamo dar morte a nessuno”. L’intervento è analogo al precedente, ma ancora più agitato, per la presenza delle concitate quartine in semicrome di violini e flauti, che abbiamo già incontrato nella scena della cattura.

Il dialogo tra Pilato e Gesù si svolge intorno alla sua presunta regalità, argomento particolarmente delicato in una prefettura turbolenta come la Giudea. Cristo l’ammette implicitamente, ma chiarisce che il suo Regno non è di questo mondo, con un breve recitativo bellicoso, quasi un frammento emerso da una “Battaglia” rinascimentale (“I miei servi avrebbero combattuto...”). I Recitativi delle Passioni bachiane sono sempre estremamente accurati, molto più espressivi e diversificati rispetto ai contemporanei “recitativi secchi” dei melodrammi: ne sono esempi il racconto del pianto di Pietro, che con sincopi e cromatismi imita i singhiozzi dell’Apostolo; la vera e propria pittura sonora della flagellazione, con pungenti formule ritmiche, che incontreremo fra poco; la faticosa salita di Gesù al Calvario simboleggiata da salti ascendenti; la tempestosa descrizione del velo del tempio che si squarcia e delle rocce che si spezzano; le commoventi descrizioni della morte e della sepoltura. Gli interventi di Cristo, poi, hanno sempre una cantabilità e una solennità superiore, in sintonia con la volontà di Giovanni di proclamare la regalità del Salvatore. Il tentativo di Pilato di liberare Gesù, sfruttando la consuetudine pasquale, naufraga nella decisa opposizione dei Giudei; il Prefetto si vede costretto a farlo flagellare.
Siamo di fronte ad uno dei momenti fondamentali della Passione, e la musica si distende in un ampio commento, iniziato dal basso e proseguito dal tenore.

L’Arioso del basso, meditativo, dolente, pensoso, si snoda attraverso frequenti alterazioni su un suggestivo sfondo di viole d’amore ansiosamente sincopate, avvalorato dal tocco rinascimentale apportato dal liuto. La meditazione prosegue nell’Aria del tenore, delicatissima, pervasa dai sospiri delle viole d’amore ripresi dal solista, fluente nelle morbide linee del canto, resa descrittiva dai madrigalismi che dipingono l’agitazione delle onde e dagli archi melodici che raffigurano l’arcobaleno. Cristo viene torturato con una corona di spine, e deriso dai soldati (“Salve, re dei Giudei!”), con un brano in cui il movimento ternario e le scorrevoli quartine dei flauti creano un andamento danzante falsamente cerimonioso.

La comparsa di Gesù, mostrato da Pilato con le parole “Ecco l’uomo”, scatena la ferocia della folla. L’intervento della “Turba”, di straordinaria efficacia drammatica, ha struttura di doppio canone, a cui è sovrapposta l’imitazione continua di un semplice inciso ritmico: e questo procedimento, che comporta la sovrapposizione e l’alternanza di più spunti tematici, amplifica notevolmente la tensione, resa ancor più esasperata dalla ripetizione ossessiva di una sola parola: “Kreuzige!”. Il doppio canone alterna le voci femminili (in canone dissonante fra di loro) con le voci maschili (pure in canone interno), e si ripete con un’insistenza parossistica che culmina in un unico grido di morte.

Non è possibile procedere oltre questo “punto di rottura”, e il clima si placa (per il momento) con un intervento più ordinato: una Fuga più formale, con esposizione, breve divertimento e ripercussioni del soggetto, e senza le continue sovrapposizioni tematiche dei fugati precedenti. Qui, infatti, i Giudei proclamano un principio giuridico (“Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire”), quasi la condanna sia determinata non tanto dall’odio (esploso violentemente prima), quanto da una necessità giuridica. Tematica e carattere analoghi ha anche il successivo intervento della “Turba”, che si giustifica con un falso ossequio verso l’Imperatore Tiberio (“Se lo liberi non sei amico di Cesare”).
Questa affermazione preoccupa sicuramente Pilato, non avendo molto interesse che a Roma si occupino di lui (verrà, infatti, richiamato nella capitale con varie accuse, e cadrà in disgrazia). E quando mostra nuovamente Gesù al popolo con le parole “Questo è il vostro re”, non fa altro che scatenarne definitivamente la violenza selvaggia, che si esprime con grida ripetute ossessivamente (“Weg, weg, mit dem!”, “Via via!”), e che sfocia nella ripresa del doppio canone precedente, rialzando la temperatura drammatica in un modo incontrollabile. Un ultimo debole tentativo (“Volete che crocifigga il vostro re”) ottiene solo un’altra ipocrita risposta giuridica (“Non abbiamo altro re che Cesare”), scarsamente credibile in una regione che nell’arco di un secolo vedrà tre sanguinose rivolte contro il potere romano, che porteranno alla seconda distruzione del tempio, e alla stessa sparizione del termine geografico “Iudaea” (sostituito dal meno evocativo “Syria Palaestina”).

Il destino di Gesù è segnato, e Pilato accetta che sia crocifisso, e ordina che venga condotto al Calvario portando la propria croce. La salita al Golgotha viene commentata in un dialogo tra il basso (che ha quasi la funzione di un predicatore) e il coro (i fedeli disorientati). Il solista li invita a seguire Cristo sul Calvario, dove “fiorisce la nostra beatitudine”, e dove la morte diventa vita. Il brano, decisamente descrittivo e teatrale, dipinge una corsa frettolosa (le sestine ascendenti che si alternano tra gli archi), le incertezze nella corsa (i ritmi puntati asimmetrici di violini e viole, gli incisi acefali ripetuti di viole e secondi violini), il disorientamento dei fedeli che non sanno dove andare (“Dove?”, si chiedono) e neppure dove attaccare (tutte le entrate del coro sono contro la metrica, in levare e anche asimmetriche). Il dramma cosmico della Salvezza si sta compiendo, ma Giovanni insiste ancora sulla regalità di Cristo, facendo intendere che lo stesso Pilato la riconosce implicitamente, apponendo sulla croce, secondo la consuetudine, il motivo della condanna (“Gesù di Nazareth, Re dei Giudei”). Infatti questo gesto fa infuriare la folla, che lo contesta, ottenendo solo una fredda conferma (“Quello che ho scritto, ho scritto!”). Il coro, con cui si esprime il dissenso del popolo, riprende esattamente il passo ironicamente cerimonioso in cui Cristo era schernito (“Salve, o re dei Giudei”). Stupisce un po’ la scelta dello stesso brano per due situazioni molto diverse; ma, forse si tratta solo di un procedimento formale per fissare l’attenzione sulla regalità di Cristo. In questo modo, infatti, tutti gli eventi tra la condanna e la crocifissione vengono inclusi tra due punti di riferimento strutturali identici, che si riferiscono entrambi a Cristo Re. E questo conferisce un senso teologico particolare a tutta l’ampia scena. Un ulteriore argomento in favore della messianicità di Gesù, che Giovanni (unico tra gli Evangelisti) introduce, riguarda la divisione delle vesti di Cristo, intesa come compimento della Scrittura. Bach iinserisce qui l’ultimo intervento della “Turba” (in questo caso rappresentata dai soldati romani), piuttosto sviluppato, costruito con entrate “a terrazza”, su tematica ritmica a note ribattute e sincopi, sorretto da incessanti quartine di semicrome al basso. A un improvviso alleggerimento (un’entrata dei soli bassi) fa seguito un progressivo infittirsi delle voci, fino alla perorazione finale a sezioni compatte. Due commoventi recitativi (separati da un corale) descrivono l’affidamento della madre al discepolo prediletto, e l’agonia di Gesù, che faticosamente sussurra “Tutto è compiuto”, con un breve segmento melodico che sembra lentamente dissolversi nella discesa graduale alla sesta minore. La viola da gamba riprende subito questo spunto tematico, dando vita ad una desolata riflessione interiore, che si sviluppa lentamente, quasi senza vita nel dialogo con il contralto. Ma nel credo cristiano la morte di Gesù non è solo uno straordinario gesto di amore: è il momento in cui, contro ogni logica, la morte diventa vita (“Chi crede in me vivrà in eterno”). Infatti, improvvisamente, un’esplosione di luce e di vita annuncia la Resurrezione: “L’eroe di Giuda vince con potenza”, proclama il solista, con un inaspettato passo bellicoso, ritmico, affermativo, di matrice vivaldiana. Ma la Resurrezione avverrà solo dopo tre giorni, e questo è ancora il momento del dolore e del compianto: dopo alcune battute torniamo, infatti, al contesto sofferente con cui la meditazione è iniziata. Tecnicamente si tratta semplicemente della ripresa della prima sezione di una struttura tripartita, ma qui Bach non completa la forma: il solista pronuncia solo due volte “Es ist vollbracht”, “Tutto è compiuto”, e la viola da gamba ripete tristemente le prime battute, conducendo alla inevitabile conclusione della vicenda umana di Gesù di Nazareth, che assume in sé il destino di ogni vittima innocente: “E chinato il capo, spirò”. Da questo momento il clima diventa inaspettatamente sereno: il “continuo” inizia ad accennare una lentissima e cullante danza ternaria in tonalità maggiore, immobile nel ritorno costante della formula iniziale. E il basso la riprende, mentre il coro interviene a tratti con i segmenti di un corale, con un testo diverso, come se il solista e i fedeli fossero immersi nei propri pensieri, e non interagissero neppure. Il tempo è come sospeso in un’atmosfera di eterna e serena attesa. Ma la scena torna improvvisamente al luogo della crocifissione, dove irrompono drammatici eventi escatologici: “Il velo del tempio si squarcia, la terra trema, le rocce si spezzano, i sepolcri si spalancano e i corpi dei Santi risorgono”. Un breve, recitativo dell’Evangelista, seguito da un Arioso, dipingono con efficacia descrittiva la scena, utilizzando formule drammatiche operistiche (tremolo, scale discendenti, rapidi arpeggi spezzati).

Prima di completare la narrazione evangelica, descrivendo la deposizione e la sepoltura, Bach si sofferma ancora a riflettere, inserendo un compianto affidato all’espressività del soprano, il cui patetismo è accentuato dalle brevi e frequenti cellule melodiche, che imitano la voce rotta da un pianto dolce ed accorato.

Questa monumentale “Passione” viene chiusa formalmente da un “Chorus”, che bilancia simmetricamente quello di apertura, includendo tutto l’oratorio tra questi due pilastri strutturali. Ma non si ritorna agli atteggiamenti intensamente drammatici con cui inizia la “Passione”: l’ultimo intervento corale sembra piuttosto una dolce, serena, commovente “ninna-nanna” che accompagna il riposo di Cristo prima della Resurrezione. Il ritmo ternario sorregge morbidamente il canto mesto e ondulato del coro, in cui le scale ascendenti (sulla parola “Himmel”) dipingono la tensione verso il cielo, e i movimenti discendenti l’addormentarsi nel riposo del sepolcro.

Con questo brano suggestivo e toccante il discorso musicale si direbbe concluso, ma non quello teologico: Bach, infatti, vuole ribadire ancora una volta che il senso di questa triste e straordinaria vicenda è la vittoria della vita sulla morte, per opera di Cristo, e per questo privilegia il significato religioso rispetto a quello esclusivamente estetico. La Passione di conclude infatti con un’affermativa professione universale di fiducia e di ringraziamento, con un “Corale”, insospettatamente, in tonalità maggiore: “Allora mi risveglierai dalla morte, in modo che i miei occhi ti vedano”. E una rassicurante cadenza perfetta in Mi bemolle maggiore accompagna la sintesi finale: “Ich will dich preisen ewiglich!”, “ Io ti voglio lodare in eterno!”.

Per il video vai QUI