Guida
all’ascolto della “Passione secondo Giovanni” a cura di Marco Faelli (©Teatro
Lirico di Cagliari)
La
“Johannes-passio ” di Bach viene eseguita per la prima volta
il 7 aprile 1724 (Venerdì Santo) a Lipsia, nella Nikolaikirche, anziché, come
era previsto, nella Thomaskirche, dove il compositore aveva assunto il ruolo di
“Kantor” l’anno precedente. Il testo
è tratto dai capitoli 18 e 19 del Vangelo secondo Giovanni, a cui sono aggiunti
undici “corali”, e una decina tra “arie” e “ariosi” su testi di Barthold
Heinrich Brockes (già autore di vari Oratori ispirati alla Passione di Cristo),
modificati dallo stesso Bach, forse con l’aiuto dell’amico poeta Christian
Friedrich Henrici, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Picander.
Il
genere musicale “Passione” nasce e
si diffonde nell’ambiente barocco tedesco, a partire dall’opera di Heinrich Schutz
(secolo XVII), diventando, soprattutto ad Amburgo, una vera forma teatrale,
estranea al servizio liturgico. Gli antecedenti vanno ricercati sia nelle Sacre
Rappresentazioni della Settimana Santa, sia nell’Oratorio, sostituto “cieco”
del melodramma per il
periodo quaresimale. La struttura,
infatti, è sostanzialmente quella di un Oratorio, a sua volta (almeno in ambito
bachiano) amplificazione della Cantata, le cui componenti principali sono:
grande “Chorus” iniziale (e, a volte, finale), Corali, recitativi e arie
solistiche. Le “Passioni”, però, hanno sviluppo superiore, e sono
caratterizzate dalla presenza dell’Evangelista, che assume la funzione
recitativa dello “Storico”, presente già nei primi esempi secenteschi di
Oratorio. Nelle “Passioni” vengono inseriti anche molti brani corali
contrappuntistici, introdotti dai recitativi dell’Evangelista, che
rappresentano la “turba” degli Ebrei.
La
narrazione della Passione di Cristo nel Vangelo secondo Giovanni è
sostanzialmente vicina a quella dei sinottici, ma con alcune caratteristiche
proprie. Giovanni è più sintetico, e ha una narrazione meno drammatica: omette,
infatti, molti particolari, tra cui l’agonia nel Getsemani, il bacio di Giuda,
il processo di Gesù davanti al Sinedrio, gli oltraggi che Gesù subisce in casa
del Gran Sacerdote, il suicidio di Giuda, l’interrogatorio da parte di Erode
Antipa (di cui parlano solo Luca e l’apocrifo “Vangelo di Pietro”), gli scherni
sotto la croce, le tenebre al momento della morte. Inoltre Giovanni è l’unico a
parlare della presenza di Maria ai piedi della croce, dell’affidamento della
madre al discepolo prediletto, e del sangue che sgorga insieme all’acqua dal
costato trafitto di Cristo. Questi due particolari, e l’insistenza sulla
veridicità della testimonianza, sono verosimilmente riconducibili a un
testimone diretto della crocifissione, forse non conosciuto dai Sinottici,
indipendentemente dalla controversa identità dell’autore del Quarto Vangelo.
Il
Vangelo secondo Giovanni è notevolmente influenzato dall’ambiente culturale
greco, soprattutto stoico (i concetti di ἀρχη’ e di λóγος con cui si apre il
Prologo sono inequivocabili). La sua prospettiva, quindi, è più teologica che
storica, incentrata sul Cristo della Fede piuttosto che sul Gesù storico, e
finalizzata all’affermazione della divinità del Messia. Nella scena della
cattura, infatti, Gesù afferma con autorità “Sono io” alle guardie del tempio,
e quest’affermazione le fa cadere a terra tramortite (i Sinottici non ne
parlano, e presumibilmente non si tratta di un fatto storico, ma di un
“racconto di professione di fede”). Nella stessa prospettiva si colloca anche
l’ampio spazio dedicato al processo celebrato da Pilato, con la chiara
proclamazione della regalità divina di Cristo, le ripetute domande del
proconsole (“Tu sei re?”, e ancor più “Di dove sei tu?”),
l’affermazione di Cristo (“Io sono Re”), gli episodi dell’“Ecce homo” e
dell’“Ecce Rex vester”, le discussioni sul cartello posto sulla croce. E quando
Gesù viene presentato alla folla da Pilato, il Salvatore indossa ancora il
mantello regale di porpora. La prospettiva teologica emerge anche
dall’interpretazione biblica degli episodi della Passione, intesi come
realizzazione della Scrittura, e su cui insiste Giovanni: la divisione delle
vesti da parte dei soldati (Salmi 22, 19), il fatto che non vengano spezzate le
gambe a Gesù (Esodo 12, 46; Numeri 9, 12), la lancia che lo trafigge (Zaccaria
12, 10), la frase “Ho sete” pronunciata da Cristo (Salmi 69, 22, oppure Salmi
22, 16).
Bach
compose cinque “Passioni”, di cui ne restano due (“Johannes-passion” e “Matthaus-passion”),
più una controversa “Lukas-passion”, presumibilmente copia autografa di Bach di
un’opera altrui. Entrambe le opere superstiti furono scritte a Lipsia, ambiente
fortemente conservatore, lontano dalle suggestioni teatrali di Amburgo, e
consono alla severa concezione musicale di Bach; che, pur raggiungendo
altissime vette espressive e anche drammatiche, rinuncia volentieri all’impiego
di stilemi melodrammatici, cari a Telemann o a Haendel.
La
struttura complessiva è questa (è evidente l’alternanza di narrazione e di
commento):
Prima
parte:
“Chorus” introduttivo
Gli eventi della cattura; Gesù da Anna e da Caifa
Gli eventi della cattura; Gesù da Anna e da Caifa
Commento (aria del contralto, aria del
soprano)
Negazione di Pietro
Commento (aria del tenore)
Seconda
parte:
Gesù processato da Pilato
Commento (arioso del basso, aria del
tenore)
Condanna
Commento (aria del basso)
Crocifissione
Commento (aria del contralto, aria del
basso, arioso del tenore, aria del soprano)
Sepoltura
“Chorus” finale e Corale “teologico”
Il
“Chorus” che introduce la Passione è simile a una gigantesca parete su cui
siano affrescate la Crocifissione e la Resurrezione. Il
testo recita, in sintesi: “Signore, nostro Sovrano, mostraci che anche nella
più grande umiliazione sei stato glorificato”, e corrisponde sostanzialmente al
Kήρυγμα, primo annuncio degli Apostoli
e nucleo essenziale della nuova fede (“Questo Gesù Dio l’ha risuscitato, e noi
tutti ne siamo testimoni, “Atti”, 2, 32). Il brano, è caratterizzato da un
ostinato movimento di quartine di semicrome affidate agli archi, ipnotico e
incombente nel suo fluire continuo, che crea un clima pesante e angoscioso, e
che presenta un’inequivocabile analogia con l’Inizio fugato del “Requiem in Re
minore” di Mozart. Su questa base emergono continui e dolenti ritardi,
declamati in tono estroverso dai legni, che dilazionando continuamente la
risoluzione armonica guidano all’entrata declamata e teatrale del coro, che
ripete per tre volte (simboleggiando la Trinità) la formula “Herr!”,
“Signore!”. Da qui le sezioni corali si snodano omoritmicamente in un fluente
“moto perpetuo” ricco di “pathos”, interrotto nuovamente dalla triplice
proclamazione. Il ritorno frequente del tema iniziale viene alternato con passi
di carattere più contrappuntistico, con funzione di devoto alleggerimento fonico
e tensivo, secondo il complesso schema seguente:
A (tema iniziale) - B1 (breve fugato) - B2
(altro breve fugato) - A - C (terzo fugato)
B1 - A - B1 - C.
L’Evangelista inizia a narrare gli eventi della
cattura, e introduce immediatamente la “Turba ” dei Giudei, entrati nell’orto degli Ulivi
alla ricerca di Cristo. Alla sua richiesta (“Chi cercate?”) le guardie del
Tempio rispondono per due volte con un aggressivo declamato corale, reso
concitato dalle incalzanti quartine di violini e flauti: “Jesum von Nazareth!”.
Oltre
che dai commenti espressi nelle arie solistiche (concentrate in chiusura delle
scene) la narrazione è punteggiata continuamente da “Corali”, costruiti su
melodie liturgiche popolari, ma trasfigurate dalla sofferta armonia bachiana.
Se gli interventi solistici esprimono la severa e interiore meditazione del
singolo fedele, che si sforza di soffrire intellettualmente del dolore di
Cristo, secondo le concezioni del “Pietismo” secentesco (“trasformare il piombo
dell’anima in oro”), i Corali rappresentano l’assemblea liturgica, che si
riconosce in un linguaggio semplice e sentimentale, accessibile a tutti. Ne
incontriamo subito uno, in cui si proclama; “Sia fatta la tua volontà”; e si
chiede: “Donaci obbedienza e liberaci dal peccato”.
Il
racconto prosegue con Gesù che viene condotto, legato, da Caifa. E qui
incontriamo la prima riflessione del fedele, proposta dal contralto: “Per
liberarmi dai lacci dei miei peccati, il mio Salvatore viene legato”. Un
disegno ritmico ternario, affidato al basso continuo, regge l’intero brano,
strutturato come una specie di passacaglia, e creando un suggestivo effetto di
“danza al rallentatore”, che attenua il carattere dolente dei ritardi e dei
salti melodici discendenti. Sul tema del basso si dipana un dialogo che coinvolge
in modo paritario il canto e due oboi, e che nasce da un intervallo di quinta
discendente riproposto nella sua essenzialità o riempito con “fioriture di
passaggio”. L’armonia, di questa come di molte arie della “Passione”, è sempre
elusiva, divergente, “contorta”, e le semplicissime cellule tematiche sono
continuamente isolate e ricomposte, quasi il fedele non fosse mai pago di
interiorizzare e rielaborare i concetti appresi dal Vangelo.
Un breve passo narrativo (Gv, 18, 15) riferisce che
Pietro, assieme ad un altro discepolo, segue Cristo. Da qui Bach trae spunto
per una vivace e gioiosa aria “di sequela” (l’unica serena in tutta la “Johannes ”), in cui il
credente afferma con entusiasmo: “Anche io ti seguo con passi gioiosi”). Si
tratta di un elegante dialogo tra il soprano e il flauto, dove la raffinata
essenzialità fonica è impreziosita da un trattamento capillare dei motivi, e
pervasa da un clima di affetto e dolcezza.
Dopo un altro corale, riappare la “Turba ”, nell’episodio
della triplice negazione di Pietro: in questo, come in altri interventi
analoghi, il vociare della folla, l’accavallarsi delle grida e il conseguente
l’effetto caotico vengono ottenuti mediante più o meno sviluppati fugati, in
cui le parti entrano successivamente “a terrazza”, e il tema (sostanzialmente
ritmico) riaffiora continuamente nelle diverse voci che si sovrappongono con
effetto crescente.
Con la
prima Aria del tenore, seguita da un Corale, termina la prima
parte della “Passione”. La riflessione è qui introdotta dal pianto di Pietro,
che al canto del gallo si ricorda amaramente delle parole di Gesù. L’aria è
ansiosa, nervosa, quasi disordinata nel rapido alternarsi di spunti ritmici
contrastanti, con cui dialoga internamente l’orchestra. Il tenore, infatti,
declama disorientato: “Dove andare, dove trovare conforto?”. E l’elusivo
percorso musicale dipinge in modo coinvolgente l’assenza di centro che
sconvolge l’animo del fedele.
La seconda parte si apre con un Corale, dopo il
quale compare subito una contradditoria figura chiave della narrazione
evangelica, Ponzio Pilato, Prefetto della Giudea: “implacabile, senza riguardi
e ostinato” secondo Filone di Alessandria, ma personalmente non ostile a Gesù
secondo i Vangeli, che sembrano quasi trattarlo con una certa indulgenza, mentre
imputano soprattutto ai Giudei la morte di Cristo. L’accentuazione della loro
responsabilità, però, è dovuta probabilmente alle tensioni tra Ebrei e
Cristiani, che verso la fine del primo secolo (nel periodo in cui viene
formulata la redazione finale dei Vangeli) portano all’espulsione dei seguaci
di Gesù dalle Sinagoghe, facendo perdere al nascente Cristianesimo lo stato di
“religio licita”, ed esponendone i seguaci a possibili ritorsioni dell’autorità
romana.
Pilato esce malvolentieri dal palazzo e chiede: “Che
accusa portate contro quest’uomo?”; e la “Turba ” risponde, senza chiarire troppo: “Se
costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo portato”. L’intervento è
costruito mediante un complesso fugato, con cromatismi ascendenti, tensioni
armoniche, incalzanti note ribattute; in seguito l’introduzione di un nuovo
spunto tematico, ritmicamente frastagliato, aumenta la concitazione e
l’”effetto disordine”. Si crea così un clima di instabilità, in cui ci si sente
trascinati senza capire dove dal susseguirsi dei temi, dei cromatismi, dei
ritmi, fino alla chiusa fragorosa con brevi e aggressivi accordi corali.
Alla replica di Pilato (“Prendetelo e giudicatelo voi
secondo la vostra legge”) la “Turba ”
ribatte, in ossequio alla legge romana: “Noi non possiamo dar morte a nessuno”.
L’intervento è analogo al precedente, ma ancora più agitato, per la presenza
delle concitate quartine in semicrome di violini e flauti, che abbiamo già
incontrato nella scena della cattura.
Il dialogo tra Pilato e Gesù si svolge intorno alla
sua presunta regalità, argomento particolarmente delicato in una prefettura
turbolenta come la
Giudea. Cristo l’ammette implicitamente, ma chiarisce che il
suo Regno non è di questo mondo, con un breve recitativo bellicoso, quasi un
frammento emerso da una “Battaglia” rinascimentale (“I miei servi avrebbero
combattuto...”). I Recitativi delle Passioni bachiane sono sempre estremamente
accurati, molto più espressivi e diversificati rispetto ai contemporanei
“recitativi secchi” dei melodrammi: ne sono esempi il racconto del pianto di
Pietro, che con sincopi e cromatismi imita i singhiozzi dell’Apostolo; la vera
e propria pittura sonora della flagellazione, con pungenti formule ritmiche,
che incontreremo fra poco; la faticosa salita di Gesù al Calvario simboleggiata
da salti ascendenti; la tempestosa descrizione del velo del tempio che si
squarcia e delle rocce che si spezzano; le commoventi descrizioni della morte e
della sepoltura. Gli interventi di Cristo, poi, hanno sempre una cantabilità e
una solennità superiore, in sintonia con la volontà di Giovanni di proclamare
la regalità del Salvatore. Il tentativo di Pilato di liberare Gesù, sfruttando
la consuetudine pasquale, naufraga nella decisa opposizione dei Giudei; il
Prefetto si vede costretto a farlo flagellare.
Siamo di fronte ad uno dei momenti fondamentali
della Passione, e la musica si distende in un ampio commento, iniziato dal
basso e proseguito dal tenore.
L’Arioso del basso, meditativo, dolente, pensoso, si
snoda attraverso frequenti alterazioni su un suggestivo sfondo di viole d’amore
ansiosamente sincopate, avvalorato dal tocco rinascimentale apportato dal
liuto. La meditazione prosegue nell’Aria del tenore, delicatissima, pervasa dai
sospiri delle viole d’amore ripresi dal solista, fluente nelle morbide linee
del canto, resa descrittiva dai madrigalismi che dipingono l’agitazione delle
onde e dagli archi melodici che raffigurano l’arcobaleno. Cristo viene
torturato con una corona di spine, e deriso dai soldati (“Salve, re dei
Giudei!”), con un brano in cui il movimento ternario e le scorrevoli quartine
dei flauti creano un andamento danzante falsamente cerimonioso.
La comparsa di Gesù, mostrato da Pilato con le
parole “Ecco l’uomo”, scatena la ferocia della folla. L’intervento della “Turba”,
di straordinaria efficacia drammatica, ha struttura di doppio canone, a cui è
sovrapposta l’imitazione continua di un semplice inciso ritmico: e questo
procedimento, che comporta la sovrapposizione e l’alternanza di più spunti
tematici, amplifica notevolmente la tensione, resa ancor più esasperata dalla
ripetizione ossessiva di una sola parola: “Kreuzige!”. Il doppio canone alterna
le voci femminili (in canone dissonante fra di loro) con le voci maschili (pure
in canone interno), e si ripete con un’insistenza parossistica che culmina in
un unico grido di morte.
Non è possibile procedere oltre questo “punto di
rottura”, e il clima si placa (per
il momento) con un intervento più ordinato: una Fuga più
formale, con esposizione, breve divertimento e ripercussioni del soggetto, e
senza le continue sovrapposizioni tematiche dei fugati precedenti. Qui,
infatti, i Giudei proclamano un principio giuridico (“Noi abbiamo una legge, e
secondo questa legge deve morire”), quasi la condanna sia determinata non tanto
dall’odio (esploso violentemente prima), quanto da una necessità giuridica.
Tematica e carattere analoghi ha anche il successivo intervento della “Turba”,
che si giustifica con un falso ossequio verso l’Imperatore Tiberio (“Se lo
liberi non sei amico di Cesare”).
Questa affermazione preoccupa sicuramente Pilato,
non avendo molto interesse che a Roma si occupino di lui (verrà, infatti,
richiamato nella capitale con varie accuse, e cadrà in disgrazia). E quando
mostra nuovamente Gesù al popolo con le parole “Questo è il vostro re”, non fa
altro che scatenarne definitivamente la violenza selvaggia, che si esprime con
grida ripetute ossessivamente (“Weg, weg, mit dem!”, “Via via!”), e che sfocia
nella ripresa del doppio canone precedente, rialzando la temperatura drammatica
in un modo incontrollabile. Un ultimo debole tentativo (“Volete che crocifigga
il vostro re”) ottiene solo un’altra ipocrita risposta giuridica (“Non abbiamo
altro re che Cesare”), scarsamente credibile in una regione che nell’arco di un
secolo vedrà tre sanguinose rivolte contro il potere romano, che porteranno
alla seconda distruzione del tempio, e alla stessa sparizione del termine
geografico “Iudaea” (sostituito dal meno evocativo “Syria Palaestina”).
Il destino di Gesù è segnato, e Pilato accetta che
sia crocifisso, e ordina che venga condotto al Calvario portando la propria
croce. La salita al Golgotha viene commentata in un dialogo tra il basso (che
ha quasi la funzione di un predicatore) e il coro (i fedeli disorientati). Il
solista li invita a seguire Cristo sul Calvario, dove “fiorisce la nostra
beatitudine”, e dove la morte diventa vita. Il brano, decisamente descrittivo e
teatrale, dipinge una corsa frettolosa (le sestine ascendenti che si alternano
tra gli archi), le incertezze nella corsa (i ritmi puntati asimmetrici di
violini e viole, gli incisi acefali ripetuti di viole e secondi violini), il
disorientamento dei fedeli che non sanno dove andare (“Dove?”, si chiedono) e
neppure dove attaccare (tutte le entrate del coro sono contro la metrica, in
levare e anche asimmetriche). Il dramma cosmico della Salvezza si sta
compiendo, ma Giovanni insiste ancora sulla regalità di Cristo, facendo
intendere che lo stesso Pilato la riconosce implicitamente, apponendo sulla
croce, secondo la consuetudine, il motivo della condanna (“Gesù di Nazareth, Re
dei Giudei”). Infatti questo gesto fa infuriare la folla, che lo contesta,
ottenendo solo una fredda conferma (“Quello che ho scritto, ho scritto!”). Il coro,
con cui si esprime il dissenso del popolo, riprende esattamente il passo
ironicamente cerimonioso in cui Cristo era schernito (“Salve, o re dei
Giudei”). Stupisce un po’ la scelta dello stesso brano per due situazioni molto
diverse; ma, forse si tratta solo di un procedimento formale per fissare l’attenzione
sulla regalità di Cristo. In questo modo, infatti, tutti gli eventi tra la
condanna e la crocifissione vengono inclusi tra due punti di riferimento
strutturali identici, che si riferiscono entrambi a Cristo Re. E questo
conferisce un senso teologico particolare a tutta l’ampia scena. Un ulteriore
argomento in favore della messianicità di Gesù, che Giovanni (unico tra gli
Evangelisti) introduce, riguarda la divisione delle vesti di Cristo, intesa
come compimento della Scrittura. Bach iinserisce qui l’ultimo intervento della “Turba”
(in questo caso rappresentata dai soldati romani), piuttosto sviluppato,
costruito con entrate “a terrazza”, su tematica ritmica a note ribattute e
sincopi, sorretto da incessanti quartine di semicrome al basso. A un improvviso
alleggerimento (un’entrata dei soli bassi) fa seguito un progressivo infittirsi
delle voci, fino alla perorazione finale a sezioni compatte. Due commoventi
recitativi (separati da un corale) descrivono l’affidamento della madre al
discepolo prediletto, e l’agonia di Gesù, che faticosamente sussurra “Tutto è
compiuto”, con un breve segmento melodico che sembra lentamente dissolversi
nella discesa graduale alla sesta minore. La viola da gamba riprende subito
questo spunto tematico, dando vita ad una desolata riflessione interiore, che
si sviluppa lentamente, quasi senza vita nel dialogo con il contralto. Ma nel
credo cristiano la morte di Gesù non è solo uno straordinario gesto di amore: è
il momento in cui, contro ogni logica, la morte diventa vita (“Chi crede in me
vivrà in eterno”). Infatti, improvvisamente, un’esplosione di luce e di vita
annuncia la Resurrezione: “L’eroe di Giuda vince con potenza”, proclama il
solista, con un inaspettato passo bellicoso, ritmico, affermativo, di matrice
vivaldiana. Ma la Resurrezione avverrà solo dopo tre giorni, e questo è ancora
il momento del dolore e del compianto: dopo alcune battute torniamo, infatti,
al contesto sofferente con cui la meditazione è iniziata. Tecnicamente si
tratta semplicemente della ripresa della prima sezione di una struttura
tripartita, ma qui Bach non completa la forma: il solista pronuncia solo due
volte “Es ist vollbracht”, “Tutto è compiuto”, e la viola da gamba ripete
tristemente le prime battute, conducendo alla inevitabile conclusione della
vicenda umana di Gesù di Nazareth, che assume in sé il destino di ogni vittima
innocente: “E chinato il capo, spirò”. Da questo momento il clima diventa
inaspettatamente sereno: il “continuo” inizia ad accennare una lentissima e
cullante danza ternaria in tonalità maggiore, immobile nel ritorno costante
della formula iniziale. E il basso la riprende, mentre il coro interviene a
tratti con i segmenti di un corale, con un testo diverso, come se il solista e
i fedeli fossero immersi nei propri pensieri, e non interagissero neppure. Il
tempo è come sospeso in un’atmosfera di eterna e serena attesa. Ma la scena
torna improvvisamente al luogo della crocifissione, dove irrompono drammatici
eventi escatologici: “Il velo del tempio si squarcia, la terra trema, le rocce
si spezzano, i sepolcri si spalancano e i corpi dei Santi risorgono”. Un breve,
recitativo dell’Evangelista, seguito da un Arioso, dipingono con efficacia
descrittiva la scena, utilizzando formule drammatiche operistiche (tremolo,
scale discendenti, rapidi arpeggi spezzati).
Prima di completare la narrazione evangelica,
descrivendo la deposizione e la sepoltura, Bach si sofferma ancora a
riflettere, inserendo un compianto affidato all’espressività del soprano, il
cui patetismo è accentuato dalle brevi e frequenti cellule melodiche, che
imitano la voce rotta da un pianto dolce ed accorato.
Questa monumentale “Passione” viene chiusa
formalmente da un “Chorus”, che bilancia simmetricamente quello di apertura,
includendo tutto l’oratorio tra questi due pilastri strutturali. Ma non si
ritorna agli atteggiamenti intensamente drammatici con cui inizia la “Passione ”: l’ultimo
intervento corale sembra piuttosto una dolce, serena, commovente “ninna-nanna”
che accompagna il riposo di Cristo prima della Resurrezione. Il ritmo ternario sorregge
morbidamente il canto mesto e ondulato del coro, in cui le scale ascendenti
(sulla parola “Himmel”) dipingono la tensione verso il cielo, e i movimenti
discendenti l’addormentarsi nel riposo del sepolcro.
Con questo brano suggestivo e toccante il discorso
musicale si direbbe concluso, ma non quello teologico: Bach, infatti, vuole
ribadire ancora una volta che il senso di questa triste e straordinaria vicenda
è la vittoria della vita sulla morte, per opera di Cristo, e per questo privilegia il
significato religioso rispetto a quello esclusivamente estetico. La Passione di
conclude infatti con un’affermativa professione universale di fiducia e di
ringraziamento, con un “Corale”, insospettatamente, in tonalità maggiore:
“Allora mi risveglierai dalla morte, in modo che i miei occhi ti vedano”. E una
rassicurante cadenza perfetta in Mi bemolle maggiore accompagna la sintesi
finale: “Ich will dich preisen ewiglich!”, “ Io ti voglio lodare in eterno!”.
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