martedì 25 giugno 2013

Incontro ravvicinato con… il “Quartetto di Venezia”

«30 anni di quartetto significano moltissimo: una scelta di vita che ci ha fatto girare un po' tutto il mondo, conoscere tantissime personalità del mondo musicale e non. Soprattutto, è stata un’avventura che ci ha riempito la vita in modo assoluto»



(Foto di Alessandro Bearzot)
Lo scorso 28 febbraio hanno ricevuto una targa di rappresentanza dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del trentennale dalla fondazione. Un traguardo davvero prestigioso che Andrea Vio (violino), Alberto Battiston (violino), Giancarlo di Vacri (viola) e Angelo Zanin (violoncello) – ovvero il Quartetto di Venezia – vivono, però, solo come una tappa.


Una tappa di una “splendida avventura” che i 4 musicisti proseguono, con qualche anno in più ma con lo stesso immutato entusiasmo degli inizi. Alla base, un profondo affiatamento, una sempre rinnovata voglia di arricchire le proprie conoscenze musicali, ma anche una consapevole scelta che “ha riempito la loro vita in modo assoluto”. Ne ho parlato con il violinista Andrea Vio

Quest’anno festeggiate il 30° anniversario dalla fondazione del Quartetto: cosa rappresenta per voi quest’importantissimo traguardo?
Credo che ben pochi quartetti, in Italia e non solo, siano arrivati a quest’importante traguardo; anzi, non un traguardo ma una tappa... 30 anni di quartetto significano moltissimo: una scelta di vita che ci ha fatto girare un po' tutto il mondo, conoscere tantissime personalità del mondo musicale e non. Soprattutto, è stata un’avventura che ci ha riempito la vita in modo assoluto.




Come e quando è nato il Quartetto di Venezia?
Abbiamo iniziato quasi per gioco, giovanissimi allievi del Conservatorio di Venezia, quando tra una lezione e l’altra ci fermavamo a leggere, per pura curiosità e divertimento, i quartetti dei più grandi autori. Dopo pochissimo tempo abbiamo capito che c’era un grande feeling tra di noi e che quella era la nostra strada.

Cosa è cambiato e cosa, invece, è rimasto uguale in questi 30 anni?
Senza dubbio, gli anni hanno portato una maturità musicale che ci ha dato la possibilità di leggere e interpretare la musica con sempre diverse prospettive: ovviamente, arricchendo nel tempo il repertorio, aumenta anche la capacità di trovare nuove idee musicali, particolari che prima sfuggivano all’orecchio etc. Per questo motivo, credo che di uguale non sia rimasto nulla, se non l’entusiasmo e la sempre maggiore voglia di arricchire le proprie conoscenze musicali.




Tra i vostri punti di riferimento principali ci sono due storiche formazioni: il Quartetto Italiano e il Quartetto Vegh. Cosa avete ereditato da queste due scuole?
Sono state indubbiamente fondamentali, entrambe, per la formazione del Quartetto! Il maestro Piero Farulli ci ha dato una spinta decisiva nella conoscenza dei Quartetti di Beethoven che lui venerava. Era un uomo generoso e di grande carisma: cercava di tirar fuori da ogni allievo la propria grinta e personalità ma aveva anche l’umiltà di unirsi ai propri allievi. Che grande emozione suonare con lui!



Sandor Vegh e Paul Szabo sono stati i maestri che ci hanno dato più stimoli nella ricerca di una nostra identità artistica e con i quali ci siamo sempre trovati in sintonia. Il loro modo d’intendere lo studio del quartetto era così attento a ogni particolare che nessun dettaglio sfuggiva. Di fondamentale importanza erano la tecnica dell’arco, la ricerca timbrica, la chiarezza esecutiva e la tecnica in tutti i suoi aspetti: il tutto al servizio dell’interpretazione del brano. Abbiamo avuto la fortuna di suonare Schubert con Paul Szabo [violoncellista del celebre “Quartetto Vegh”, n.d.r. ] e un Sestetto di Brahms con lui e Bruno Giuranna al Palau de la Musica di Barcelona. Momenti memorabili!

Qual è il vostro metodo di lavoro quando dovete affrontare una nuova partitura?
Lettura a prima vista per sentire le prime emozioni e avere un’idea di massima del quartetto; poi, studio individuale in contemporanea con lo studio di assieme. Con il tempo l’olio del motore gira più fluido: 30 anni sono pur serviti a qualcosa...




Vi incontrate quotidianamente per provare?
Sì, a parte i due giorni d’insegnamento nei rispettivi Conservatori. Faccio sempre il paragone con un solista: se lui studia ogni giorno un bel po’ di ore, un quartetto deve studiare almeno quanto lui, se non di più.

Come sono i rapporti all’interno della formazione? E come nascono le scelte interpretative? Ossia, tra di voi c’è una sorta di “leader” o un confronto continuo e paritario?
La nostra idea (ma credo che oggigiorno sia comune a tutti i quartetti) è quella di dare spazio alle singole personalità tecnico-musicali e decidere insieme le scelte interpretative. Nel caso ci fossero delle diverse idee si discute e alla fine si trova un compromesso che quasi sempre si condivide. È come un matrimonio a quattro: si discute anche animatamente ma poi ci si mette d’accordo.


(Foto di Alessandro Bearzot)
In questi trent’anni avete dato particolare risalto al repertorio quartettistico italiano, toccando anche compositori poco frequentati come Guido Turchi: cosa vi ha indirizzati verso questa scelta?
Più che particolare risalto, abbiamo accostato al repertorio più importante (il nostro repertorio è assai vasto) opere di autori italiani così spesso ingiustamente dimenticati. Il motivo è molto semplice: a parte la qualità di queste opere, che riteniamo possano essere tranquillamente accostate al "grande" repertorio… Siamo o non siamo italiani?

La discografia del QDV comprende una ventina di CD (tra cui Dynamic, Decca e Naxos), e siamo fieri di aver fatto conoscere quartetti di autori italiani fino ad allora sconosciuti, come Malipiero [per l’incisione integrale degli otto Quartetti, il QDV ha ricevuto il uQuartetiiqqqququ   Premio della Critica Italiana”, n.d.r.], Bazzini, Cherubini, Zandonai, Boccherini, Respighi e Martucci. Il prossimo cd, la cui uscita è prevista a novembre, conterrà musiche di Alfredo Casella (in prima mondiale) e Guido Turchi.

Avete suonato per i maggiori festival italiani e internazionali: in questo periodo di profonda crisi, per la cultura in particolare, è cambiato qualcosa? Come affrontate la situazione?
Dolenti note... Il QDV, per fortuna, risente in minima parte della crisi: stiamo suonando nelle maggiori Stagioni italiane e, spesso, anche all’estero. La preoccupazione maggiore è per quei giovani talenti, e ne abbiamo tanti, che sono costretti a cercare fortuna altrove: ciò mi rattrista parecchio (e sappiamo bene che non riguarda solo la musica).

In linea generale ci sono Paesi, anche quelli che non hanno una tradizione musicale come la nostra, che ancora sono capaci di investire nella musica colta. La crisi culturale, e non economica (i soldi ci sono eccome!), sta toccando un po' tutti ma ci sono Paesi che, nonostante i “mala tempora”, non si permettono minimamente di toccare il mondo della musica classica.

Un aneddoto: a Bad Kissingen ero in hotel e, mentre guardavo la TV, tra una pubblicità di spaghetti e una di auto, comparì quella del BeethovenFest di Bonn. Inimmaginabile da noi! Perciò, quando certe menti illuminate dicono che la musica colta non fa business, io rispondo: “Palle!”.

La verità è che non si è capaci di gestire questo tesoro inestimabile. In Italia c’è almeno un teatro in ogni città o paese. Ci rendiamo conto delle potenzialità? Dove sono i privati? Dov'è la politica? I tagli al FUS sono una vergogna nazionale... Forse, è meglio tacere...



Numerose sono state anche le collaborazioni con solisti o formazioni: ce n’è qualcuna che ricordate con particolare emozione?
Beh, direi che tutte le collaborazioni avute con i nomi più prestigiosi sono state emozionanti, stimolanti e formative: Bruno Giuranna,”Quartetto Borodin”, “Quartetto Prazak”, Piero Farulli, Paul Szabo, Oscar Ghiglia, Danilo Rossi (con lui abbiamo registrato l’integrale dei quintetti di Beethoven per la Dynamic), Dieter Flury (1° Flauto dei Wiener Philarmoniker), Pietro De Maria, per citare i più importanti. Esperienze diverse tra loro ma tutte meravigliose.

Che strumenti suonate?
Io suono un violino Pierre Dalphin (Ginevra 1980), Battiston un Eugenio Degani (Venezia 1897), di Vacri una viola Otello Bignami (Bologna 1983), Zanin un violoncello Marcello Giovanni Battista Martinenghi (Venezia 1931). Per più di una decina d’anni ho avuto la fortuna di suonare due meravigliosi strumenti della collezione “Il Canale”: Nicolò Amati e Santo Serafino. Siamo sempre disponibili a prendere seriamente in considerazione una fondazione o un collezionista per avere in prestito un quartetto di strumenti antichi di valore. In altri Paesi spesso viene data questa concessione da parte di Musei, Università, collezionisti etc.

Numerose sono anche le incisioni discografiche: come vivete e affrontate la registrazione in studio?
Direi che oggigiorno si vive abbastanza bene e con la dovuta tranquillità: in studio è tutto più facile: diversamente, una registrazione live crea una bella e sana tensione. Ricordo molto bene una trasmissione dal vivo a New York, per la Radio del New York Times (WQXR): Quartetto di Verdi, studio da radio con acustica secca… 3-2-1: go! Provare per credere.

Riascoltando a distanza di anni un’incisione vi è capitato di non condividere più le scelte interpretative passate?
Già dal giorno dopo... Le cose hanno una naturale evoluzione, cambiano: come cambia il modo di sentire certi particolari, passaggi, sfumature di suono, fraseggi, accenti che avresti voluto fare... Non saremmo umani se non fosse così.

Un concerto che vi è rimasto particolarmente impresso…
Sono tanti ma uno per tutti: era l’ottobre del 1983, al Teatro la Fenice, quando ci fu la prima uscita ufficiale del Quartetto di Venezia (avevo 20 anni). La mattina del concerto mi recai in biglietteria per chiedere se ci fossero ancora biglietti disponibili, ma giunto al teatro guardai il cartellone: “TUTTO ESAURITO”. Spalancai gli occhi e mi prese il terrore... Mi chiedevo come fosse possibile: nessuno ci conosceva. La sera del concerto entrammo in palcoscenico col cuore che batteva a mille. Era davvero tutto pieno e pensammo: “Che spettacolo: questa è la nostra strada!”.


Adriana Benignetti